Si siamo demoralizzati. La cosiddetta questione morale si presenta sempre con nuove declinazioni. Ci sono quelli che prendono e danno tangenti anche sotto forma di prestazioni sessuali. Ci sono quelli che collidono con organizzazioni criminali, per ambizione, avidità o paura. Ci sono quelli che non rubano ma hanno sclerotizzato l’organizzazione della cosa pubblica per inefficienza e incompetenza. Ci sono quelli che hanno moltiplicato e ripetuto su scala le cattive abitudini familiari rendendo generalizzato il nepotismo e il personalismo e trasformandolo in un clientelismo endemico.
E ci sono quelli che pensano che l’equità sia condannare tutti, egualmente, ad abbassare i livelli di qualità esistenziale e sociale, con la rinuncia a diritti e garanzie per non intaccare privilegi, beni e potere di pochi.
Sono questi i moderni sacrifici al dio profitto, che suscitano le lacrime della ministra emotiva, insensibile invece ai licenziamenti o alle conquiste sudate dei lavoratori, vecchi orpelli del passato. Manca solo che ci si lagni dei comunisti e si compirà la rimozione totale di eventuali nostalgie del passato regime. Manca solo che dica che è in campo con il suo esercito di giuslavoristi incompetenti in materia di lavoro ma soprattutto di giustizia, per salvarci. Ah no, questo l’hanno già detto, mica per niente una manovra di cassa viene definita “salva-Italia”.
Allora l’accanita prestigiatrice vuole convincerci che il modo per sortire magicamente dalla crisi è la cancellazione istantanea dell’articolo 18 che liberando le imprese da arcaici vincoli rimetterebbe in moto l’economia, forse costituirebbe anche la cura per il cancro e comunque cancellerebbe, come ha sottolineato l’altra first lady dell’ottusa crudeltà, ideologie e soprattutto idee, che si sa sono un ostacolo per la loro rapacità insieme ai diritti e alla solidarietà.
Siamo demoralizzati perché rappresenta un disinvolto scippo di giustizia, e quindi di etica, voler convincere che un diritto sia invece un privilegio, mettendo contro occupati e disoccupati, scatenando una guerra tra poveri tra “garantiti” che lo sono sempre meno e precari che lo sono sempre di più.
Lo chiama «riforma del ciclo di vita», la ministra, che per Natale regala alla figlia un posto d’oro in una fondazione, questo accanimento immorale e mortale, pensato per scardinare un patto generazionale che ha puntellato il nostro peraltro già iniquo sistema, mettendo il poco dei vecchi contro l’ancora meno dei giovani come se quel poco fosse un arbitrio immeritato e l’”ancora meno” un’arma effimera ma mortale contro i padri. E come tutte le armi, cieca, se la precarietà è ancor più pesante nelle aziende con meno di 15 dipendenti dove lo Statuto non vige.
Siamo demoralizzati perché mai come ora il mercato è stato tanto senza neppure una finzione morale, se un consiglio comunale eletto dalla cittadinanza ne vende dignità e la memoria di 1800 morti di lavoro per comprare in cambio dell’ingiustizia quanto invece lo Stato dovrebbe garantire. E dove allo stesso modo – è notizia di queste ore – una lesione della democrazia nelle relazioni industriali si scambierebbe con un ipotetico “aumento dei salari”, gettato in pasto agli affamati, altro che bioche.
Ma d’altra parte se siamo demoralizzati noi lo è anche il capitalismo, che questa compagine governativa rappresenta e interpreta nella sua forma immateriale, rapace e miope. E anche piuttosto confusa. Eh si ci vorrebbe gente pratica per dirigere il mercato e i suoi comportamenti verso un recupero di regole di condotta funzionale all’economia, con l’imposizione di limiti e standard di onestà, correttezza e fiducia reciproca anche negli affari, senza i quali il perseguimento puramente egoistico e plutocratico dell’interesse diventa autodistruttivo. Una volta perfino il capitalismo aveva bisogno di una legittimazione etica e faceva ricorso all’aiuto sodale di chiese e credo, delle teorie del doux commerce conviviale e della socievolezza illuminista, o della benevolenza del macellaio di Smith che temperava l’algido utilitarismo.
Ci voleva il liberismo per sostenere che proprio perseguendo con solipsistica e egoistica coerenza il suo interesse che l’uomo economico produce il miglior risultato possibile in termini di benessere collettivo. E pare che oggi in molti siano convinti che è possibile anzi realistico e logico conseguire la virtù della crescita attraverso il vizio del profitto. E se una volta vigeva una certa ipocrisia, non importava che l’uomo economico fosse morale, bastava che facesse finta di esserlo, ora i devoti del mercato fanno professione di pragmatismo che oggi, modernamente, è solo cinismo. Passano i cavalli di Attila sulle poche zolle risparmiate dalla contrattazione selvaggia e costituite da regole, principi, inibizioni, credenze. Il loro profeta è Gekko, anzi il suo ispiratore: l’avidità è cosa buona e giusta, l’egoismo e l’accumulazione sono i beni finali e non strumentali. La professoressa Fornero fa pensare a un Churchill immaginario che chiede lacrime e sangue ai cittadini per vincere la guerra, ma esonera sua figlia e i figli dei ricchi dal servizio militare. .
E’ così che il futuro è solo un prodotto finanziario che noi non siamo autorizzati a riscuotere.