Presso la sede di Testaccio del Macro, Museo d’arte contemporanea Roma, è ancora aperta la mostra dedicata a Renato Zero, inaugurata sul finire del 2014. Fenomeno di costume, paradigma sociale, apostolo della diversità, salvacondotto del pluralismo di generi, precursore della biodiversità, cellula plurizigotica di un’esistenza versatile destinata a promuovere essere e apparire, Zero si rivela dalle prime sale della mostra nei suoi panni iridescenti di profeta canoro generoso ed ecumenico.
Come i Beatles agli albori degli anni Sessanta hanno rischiarato i sotterranei trasgressivi della Cavern, lasciando fuoriuscire il vapore ritmico britannico dalla depressione postbellica e dando vita ad una silhouette di contemporaneità emergente dalla periferia proletaria, così Zero ha riempito la sagoma virtuosa di creatura del suburbio romano del boom economico, in bilico fra i primi strati d’asfalto e gli ultimi fili d’erba dell’agro laziale, precoci virgulti della Capitale in emersione.
Renato Zero
Zero che zero non è e mai sarà, è qui, questa è la sua era e qui lui è padrone del nostro immaginario: si avverte negli spazi espositivi il suo palpito e si legge il suo occhio nella scelta dei materiali. Volubile, versatile, multitasking, prodigo, eccessivo e umbratile allo stesso tempo, il grumo umano di Renato viene tutto fuori a Testaccio: dalla prima comunione alla sua artisticità spontanea, primigenia, vibrante, scettica, a tratti pasoliniana.
Renato, unica creatura bifronte capace di prendersi sul serio e deridersi, bisognosa allo stremo di liberarsi delle grate compulsive dell’evidenza sociale ordinaria, si racconta negli spazi di Testaccio fra tecnologie ad alta definizione e un impianto espositivo pluriarticolato.
L’elogio del beauty case dei suoi esordi funambolici, quasi caricaturali, sulla scena, ricorrente nel percorso espositivo, fa rima con la Trousse di Renato Mambor, un contenitore trasformista utile a presentare uomini e cose, in grado di far comunicare più spazi dell’esistenza: l’esibito e l’osservatore, l’essere e la flagranza. L’irrinunciabilità al trucco di Zero, qui rivelata come un’epifania, è custodita in questo strumento indispensabile alla finzione “per essere a costo di non essere”.
Una menzione speciale meritano gli abiti di scena esposti, teatralmente allineati sopra le nostre teste per ripetere quel fumo di illusionismo che sovente Zero ha voluto accendere. Infine documenti, registrazioni, stralci, giornali, fotografie: Zero lo trovate ovunque e accanto a chiunque abbia rappresentato un tassello indispensabile in questo passaggio moderno, non indolore, degli ultimi cinquanta anni di vita italiana. Un pizzico di mitologia, un pizzico di vanità e anche un pizzico di autoreferenzialità ci segue lungo il percorso.. ma perché no? Perché non concedere a Zero questa piccola venialità?
Zero, come dice l’artista di se stesso, è l’unico che ha fatto dell’assenza un capolavoro, di un’offesa una qualità e il coraggio di rinunciare ad essere uno, quando avrebbe potuto facilmente chiamarsi mille. C’è un po’ di desiderio di esser Zero in tutti noi. Zero che zero non è e che zero non è stato mai e lì, a Testaccio e questa è davvero la sua era. Cercatelo a Roma fino al 22 Marzo; vi accoglierà, come dice il titolo di una sua canzone, “Nei giardini che nessuno sa”.
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