
Elliot Goldner dev’essersi posto questa domanda, e infatti il suo The Borderlands, piccolissimo esordio con tre attori e due location, vive principalmente di una narrazione chiara e solida, fatta di personaggi modellati sapientemente e dialoghi ben scritti che danno la giusta credibilità alla situazione inscenata. E non era cosa facile, dato che parliamo di un team di preti-scienziati incaricati di avvalorare il verificarsi di un miracolo in un’antica chiesa della brughiera inglese – il rischio di uscirne con una cafonata religiosa piena di caproni e stelle a cinque punte era elevatissima. Protagonisti come il ferreo Deacon o il simpatico Grey sono esempi di ottima, ottima scrittura, perché figure dotate di una tridimensionalità che emerge piano attraverso battute, riflessioni, scambi di vedute e litigi, sono uomini con cui è facile empatizzare perché hanno quel carisma umano che dà vita alla quotidianità che ci circonda. Sono elementi fondamentali, preziosissimi, in questa storia semplice e lineare dove ogni tassello è distribuito con quel mestiere che non rende però il film meno interessante, bensì ne esalta la scrittura: Goldner usufruisce di poche cose e pochi mezzi per mettere in piedi una trama che funziona perfettamente tra presenze demoniache, suicidi inspiegabili, vecchi grimori, culti pagani e sotterranei lovecraftiani. Insomma, c’è roba vecchia ma buona, e Goldner sa come dosarla, lo sa fare così bene che in fondo gli si possono perdonare alcune ingenuità legate anche al budget misero a disposizione, che alla fine nulla tolgono all’esperienza complessiva.
Il resto, ovviamente, è la confezione tipica di un bel mockumentary, fatto di inquadrature traballanti, squarci notturni e lunghi silenzi interrotti da suoni stridenti o fugaci apparizioni, almeno un paio di balzi terremotanti sulla sedia, il crescendo di ansia, urla e confusione man mano che l’orrore acquisisce solidità, e la parte finale che diventa presto insostenibile. Niente che non si sia già visto in decine di prodotti simili, sono strategie dell'orrore che hanno saputo farsi apprezzare fino a far traboccare il buon gusto perché mal giostrate, scopiazzate, gestite alla cazzo da registi che tentano stupidamente il colpaccio inseguendo le mode, ma che quando sono scritte e dirette con gusto, come sa fare Goldner, io non posso fare a meno di sentirmi perso tra corridoi interminabili, suoni che distruggono i timpani, atmosfere che azzerano il respiro e un'ansia per me agghiacciante che solo i migliori mockumentary, attraverso tecniche subdole ma cazzo, quando funzionano sono irraggiungibili, riescono a evocare. Si può aggiungere anche un’interessante ricerca della soggettiva, molte riprese si concentrano su particolari inutili ma utili a creare normalità, è qualcosa però che appare solo saltuariamente e poteva essere spremuta meglio per dare un taglio registico più personale e magari anche un differente approccio ai momenti più inquietanti. Rimane allora da chiedersi perché Goldner, che mostra di saper adoperare la penna e gestire ritmo e attori, debba in qualche modo abbassarsi a girare un documentario fake, che ovviamente deve a sua volta piegarsi a scappatoie indispensabili o inevitabilmente prive di risposta: i nostri devono entrare nella chiesa di notte perché fa più paura, hanno tonnellate di macchinari per documentare ogni secondo e poi non guardano o controllano nessuna registrazione video, non si sa chi abbia trovato il materiale, come e perché l’abbia montato, e via così. C’erano quindi potenzialità per farne semplicemente un buon film horror, eventualità che di sicuro l’avrebbe risparmiato da critiche e pregiudizi ai quali il cinema del terrore oggigiorno non può più sottrarsi, ma che un film come The Borderlands, così genuino, piacevole e ben fatto, non si merita. E infatti, per il momento io mi accontento. Non so voi.