ERANO TUTTI PAZZI
Un racconto di Octave Mirbeau
Octave Mirbeau scrive i suoi Contes cruels (Racconti crudeli) tra il 1885 e il 1890. Il titolo è un omaggio all’amico Villiers de L’Isle-Adam, morto qualche anno prima, che aveva pubblicato i suoi Racconti crudeli nel 1883. Racconti crudeli perché smascherano, senza falsa pietà nei confronti del lettore, gli aspetti più atroci della società e del potere; racconti sulla crudeltà che mettono in scena ogni volta gli abissi più macabri e perversi dove si può spingere l’uomo. Qui ci troviamo di fronte a un episodio molto particolare di guerra, in cui la realtà prende le forme di un orribile sogno. L’esercito di cui si parla è quello russo, fatto di Russi e Polacchi, mandato a combattere in Manciuria in una guerra di espansione coloniale che di lì a poco avrebbe coinvolto anche la Francia. La scelta non è casuale, Mirbeau ama la Russia: proprio grazie alle opere di Tolstoj e di Kropotkin ha organizzato lo spirito anarchico di rivolta in sistema critico del capitalismo. Tutte le corde della sensibilità mirbelliana vengono toccate in queste poche pagine: l’accusa al potere, nella forma dello zar e dei suoi rappresentanti, generali e colonnelli, che trascinano povera gente a combattere e morire per qualcosa priva di senso; la solidarietà con i soldati, i soli a essere ancora capaci di azioni di carità nei confronti dei propri simili; la visione della vita come qualcosa di assurdo. La Guerra diventa la massima espressione di una società che schernisce, schiaccia e uccide con indifferenza chi è escluso dal potere del denaro. Sul piano puramente letterario la breve narrazione si caratterizza per una scrittura allucinata e di grande potenza visionaria.Ida Merello
Erano tutti pazzi
In questi ultimi giorni ho avuto occasione d’incontrare un ufficiale polacco, un capitano che tornava ferito dalla Manciuria.
Il capitano, su questa guerra tanto vergognosa quanto inutilmente atroce, mi ha raccontato cose che danno la vertigine, storie tali che l’immaginazione più frenetica non saprebbe concepire niente di simile neppure nelle zone dell’incubo.
Dedico questo racconto ai soldati di tutti i paesi e lascio la parola al capitano polacco che alla fine chiederà loro se non sono stanchi di essere uccisi e di uccidere.
Era la notte di un dovere sventurato, come sempre… Eravamo accampati con le facce smorte, il cuore pesante, i corpi sfiniti… Non avevamo più viveri… né ambulanze… né legna per il fuoco… niente! C’erano venticinque gradi sottozero, un freddo che scorticava la pelle e ghiacciava le vene… Restare immobili e addormentarsi significava morire… E quella notte, in effetti, morirono in tanti. Immaginate, se ne siete capaci, questa scena terrificante. Diecimila uomini ammucchiati… diecimila uomini silenziosi di cui si percepiva soltanto il sordo calpestio sopra la terra ghiacciata e neppure una voce, neppure un respiro!
Alcuni ritardatari, vagando intorno al campo, dicevano di aver sentito, attraverso la pianura, a destra come a sinistra, davanti e dietro e dappertutto gridi, pianti, richiami, appelli, urli… I feriti, i poveri feriti, perduti nella notte… Ne avevano incontrato qualcuno, ma non avendo niente per trasportarli li avevano abbandonati laggiù… E del resto a quale scopo portarli via? Per fare che?…
Esclamai:
– Bisogna andare a raccoglierli, non possiamo lasciarli morire in quel modo… Chi viene con me?
Non rispose nessuno. Mi rivolsi al colonnello; mi girò la schiena. Domandai a un generale; passò oltre senza dir niente. Un ufficiale-chirurgo replicò:
– E dove li mettiamo? Non abbiamo barelle, né medicine, né strumenti… non abbiamo niente… Lasciateli crepare in pace!
Non una parola di giustizia, neppure di pietà e nemmeno di paura… soltanto l’indifferenza brutale… perché era la guerra e perché tutti quei poveri borghesi, colonnelli e soldati, sapevano che domani sarebbe toccato anche a loro.
Tuttavia, a forza di cercare, trovai qualche barella malandata; a forza di scuotere quelle forze inerti e quegli esseri sconvolti e sfiniti, ne raccolsi un centinaio…
Partimmo… La notte era nerissima… Avevamo acceso delle torce. Ma dopo aver marciato diritti per un’ora, il grido dei feriti ci guidò meglio della luce lugubre delle nostre torce… E, di tanto in tanto, s’inciampava come cavalli impauriti sopra mucchi di cadaveri, cadaveri di uomini e bestie… A un certo punto mi sentii bloccato, immobilizzato al suolo… Sentii due mani che mi avevano stretto le caviglie; come ramponi sentii quelle mani che mi risalivano le gambe e vi si incrostavano mentre una bocca, mordendomi il cuoio degli stivali con tutti i denti, si sforzava di lacerarli ringhiando come un cane…
Ai miei urli accorsero alcuni soldati… Videro un ferito con le cosce amputate che si torceva ai miei piedi come una grossa larva umana… E non riuscendo a staccarlo, lo finirono a colpi di stivale spaccandogli il cranio con il calcio dei fucili… Vi assicuro che ho vissuto qualcosa di cui non sono in grado di ridirvi il terrore.
Era diventato molto pallido; le pupille si dilatavano sotto un’impressione di orrore e la voce gli tremava… Continuò:
– Avevo il cuore a pezzi… la mente scossa da quel delirio… Volendo sfuggire ad altre orribili visioni notturne ebbi ancora la forza di raccogliere i miei uomini… Dicevo a me stesso ascoltando i clamori sparsi per la pianura: Che crepino! Ah! che crepino tutti! E stavo per ritornare al campo, allorché di colpo, dalla nostra destra, sentimmo chiasso, urli, qualcosa di più selvaggio, qualcosa di più forsennato degli appelli disperati appena intesi… Contro la mia stessa volontà, per così dire, andai verso il punto da cui quegli urli sembravano provenire…
E d’un tratto, sorgendo dall’ombra, rischiarati dalla luce selvaggia delle torce vidi – e non erano visioni di febbre, non erano incubi -, vidi dieci, venti, cento, duecento uomini completamente nudi e che gesticolavano, facevano smorfie, vociavano, abbaiavano, danzavano… Sì, in quei venticinque gradi sotto zero, c’erano corpi tutti nudi che mostravano facce sanguinanti, buchi nel petto, piaghe rosse, larghe cicatrici cucite insieme con radici nere… Qualcuno strisciava arrancando sopra monconi sanguinanti; qualcuno era armato di pistola e di sciabola che brandiva urlando…
E gettandosi contro di noi che andavamo in loro soccorso, senza riconoscerci, gridavano:
– Non vi avvicinate! Non vi avvicinate!…
Erano pazzi!…
Dopo un attimo di silenzio aggiunse:
– Partì qualche colpo… Uno dei miei uomini cadde… Cosa fare? Ci ritirammo… Per molte ore restai con la mia scorta a una certa distanza da quel gruppo di dannati… Il loro chiasso aumentò… poi, piano piano, si affievolì… scomparve.
L’esaltazione della follia era finita e il freddo li aveva afferrati. Al mattino erano morti… Al mattino, tutti i feriti della pianura erano morti!
Aggiunse ancora:
– Il giorno dopo anch’io venni ferito… un proiettile mi aprì l’articolazione della spalla sinistra…
Non morii per un miracolo… Ma non so se ne guarirò mai… Sto partendo per il sud dove ho qualche parente. Dopo quello che ho visto non ho più voglia di vivere… la mia vita è diventata orribile… Sia di giorno che di notte mi è impossibile allontanare una spaventosa e torturante ansia… Sempre… sempre quel troncone umano che mi morde le gambe!… E sempre quei pazzi… quei poveri pazzi!…
Quei pazzi sanguinanti e completamente nudi nella notte!… Voi non potete capire!… E sentite, mi chiedo se anch’io non stia diventando matto… se non sono già matto!… Per me, sarebbe stato molto meglio morire laggiù…
Octave Mirbeau
(Traduzione di Albino Crovetto)