Strage di Erba, 11 dicembre 2006. In provincia di Como, vengono uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la nonna Paola Gelli e la vicina di casa Cherubini. Si salva solo il marito di quest’ultima, Mario Frigerio perchè creduto morto. Il 3 maggio 2011, la Cassazione ha definitivamente condannato Olindo Romano e Rosa Bazzi (già condannati all’ergastolo) colpevoli. Ad oggi molti però, restano i dubbi da chiarire, sulle prove, sull’inchiesta, sulle carte. Da queste ultime in esclusiva, Notte Criminale, intervista Paola D’amico e Stefania Panza, autrici di “Erba, analisi di un delitto. Una strage imperfetta”
QUI la prima parte dell’intervista, QUI la seconda.
Tornando sulla scena del crimine e analizzando atti e fatti, come avete fatto voi, sembra quasi impossibile che siano stati loro (a partire dalle distanze, le modalità di uccisione, gli schizzi di sangue trovati in mansarda, dalle testimonianze dei soccorritori) Perché a tutto ciò non è stato dato valore? Perché non si è andati a verificare ad esempio le telecamere a circuito del Mc Donald’s? Perché riprendere delle impronte già prese? Perché farlo fare a chi non ha l’autorizzazione? cosa è successo in quelle 3 ore?
Paola D’Amico: Forse perché era troppo semplice mettere insieme questi tasselli. Avrebbe voluto dire non avere tra le mani i giusti colpevoli. Chiunque analizzi le carte, la time-line della vicenda, si accorge che quando i vigili del fuoco volontari arrivano a dare i primi soccorsi, arrivano sul pianerottolo e cercano di salire in mansarda perché sentono le grida e scendendo trovano la corte già piena di gente significa che da lì non uscirà più nessuno. Ma se qualcuno grida vuol dire che non è ancora stato sgozzato e la donna Cherubini Valeria, sarà trovata sgozzata come le altre con una coltellata che le trapassò la lingua, quindi non in grado di gridare “aiuto aiuto”.
Stefania Panza: Ci furono due perizie medico legali. Verissimo che c’è una prima immediata e successiva alle intermedicolegali che fornisce una perizia più accurata alla Procura però già nella prima perizia il dottor Ettore Scola dell’ospedale Sant’Anna di Como che, analizzò i corpi ancora sulla scena del crimine e che poi fece l’autopsia (molto frettolosa, bisogna dire, e non perché lo affermo io ma lo fanno i colleghi del dottor Scola) , nella prima perizia, disse che Valeria Cherubini, fu uccisa nella sua mansarda.
Abbiamo tutta una serie di dati: Causa decesso(trauma cranico encefalico con sgozzamento); ora del decesso e via dicendo. Questi dati, non cambiano. Le macchie di sangue, sono le stesse; gli orari, sono gli stessi; i gocciolamenti di sangue, sono gli stessi: perché, guarda caso, quando Rosa e Olindano confessano una storia diversa che si scolla dalla prima perizia, il dottor Scola cambia la sua perizia. E la cambia non in una gocciolina di una persona che, magari, ha detto di aver perso mentre correva e poi scrive invece che l’ha persa mentre stava camminando ma, in un dato fondamentale: la signora Cherubini non è stata più uccisa nella sua mansarda ma sulle scale. Perché diciamo questo? Rosa e Olindo, dicono che hanno lasciato la Cherubini stramazzata sulle scale.
Quindi abbiamo degli stessi dati scientifici identici ma modificati. Di solito si lavora così: tu hai un dato scientifico e a questo dei far collimare tutte le altre cose: la confessione, una testimonianza, un riscontro, una telefonata…si cerca quindi, e non è detto che ci si riesca, di inserire qualsiasi cosa, in questo dato scientifico. Qui addirittura abbiamo uno stesso dato scientifico che si scolla completamente da quello che dicono i due. Ma un pezzo grosso di scollamento. Da una parte può essere una prova a discolpa dall’altra una prova a carico.
Ora, se cambiamo la perizia diventa sicuramente una prova a carico perché “io” faccio morire la Cherubini sulle scale quindi se la Cherubini è morta sulle scale, prova a carico perfetta. Viceversa se mi attengo alla prima perizia, dove “dico” che la signora Cherubini è morta di sopra e gli imputati, Rosa Bazzi e Olindo Romano, dicono che l’hanno lasciata sulle scale diventa, invece, una prova a discolpa.
Ma, i dati, sono gli stessi. Quando una persona viene sgozzata, la bolla di sangue che si forma è enorme. Le hanno fracassato la testa, ha preso più di quarantadue coltellate: se è vero che dal primo piano della palazzina, fosse salita in mansarda solo per rifugiarsi su quelle scale, ci sarebbe stato un mare di sangue, un mare. Ci sono, invece, tredici goccioline di sangue. Se i vigili del fuoco l’hanno portata via, restano comunque tutte le manate sul muro, tutte le impronte della Cherubini col suo sangue sul corrimano delle scale. Sangue sulle applique di fronte la casa della Cherubini: quella è una coltellata. Abbiamo due ciocche di capelli trovate dentro l’appartamento della signora Cherubini, quindi dentro l’appartamento la signora Valeria Cherubini, povera lei, si è presa due coltellate in testa ed ha perso le ciocche.
Non è che accoltellata, tenendoti le ciocche, col cranio aperto – più la coltellata che ti trafora la lingua e altre trentanove coltellate- riesci a salire due rampe di scale. Questo non è possibile. Nessun medico legale può avvalorare una tesi del genere. Tanto che già in primo grado, questa cosa si dibatté. Noi lo abbiamo riportato in un piccolo stralcio del libro (“Erba, analisi di un delitto. Una Strage Imperfetta”ndr) perché al dottor Scola fu fatta questa domanda: Dottor Ettole Scola, che cosa provoca lo sfondamento cranio-encefalico?(perché alla Cherubini le fu spaccato il cranio) La risposta: Perdita di coscienza immediata. E allora chiedi, come è possibile che questa donna, con perdita di coscienza immediata, abbia salito due rampe di scale? Risposta del dottor Scola: Ha ripreso un attimo coscienza e, salendo le scale, è andata su a morire.
Va bene.
Paola D’Amico: E perché Rosa e Olindo non dicono che è morta di sopra? entrambi dicono infatti che loro, sopra, non c’erano mai stati. E perché la loro confessione, in buona parte, è teleguidata perché, basta leggere le carte, quando Rosa confessa, loro non sanno cosa è successo, quindi dice “Mi dica lei che cosa devo dire”. E a Rosa, saranno fatte dire cose che non avrebbe potuto dire ma probabilmente vedere perché la sua confessione fosse vera, genuina. Come hanno modificato il ricordo del testimone Frigerio (marito della vittima Cherubini) con delle domande induttive (cosa che non si fa in un interrogatorio) di questo tipo: “Ma non pensa che possa essere Olindo”, “ma è sicuro che non possa essere Olindo”. Domanda ripetuta per sette volte. Così alla buona Rosa hanno detto: “guarda, sei sicura di quello che stai dicendo, forse non è così” e lei dice “ditemi voi cosa devo dire”
Stefania Panza: Altro piccolo particolare, la cosa devastante è che il nostro libro si basa sulle carte dell’accusa e da quelle arriviamo a dire che Rosa e Olindo sono innocenti com le analisi della scena del crimine con i dati dei Ris, e attenzione, i Ris erano periti dell’accusa, non erano periti della difesa. Si dice che Marco Frigerio sia stato aggredito da Olindo. Olindo descrive come ha detto Frigerio. Quindi si deduce che ad aggredire la Cherubini è stata Rosa, perché se Olindo era su Frigerio, Rosa seguiva la Cherubini. Rosa ha il numero trentacinque di scarpe. Nella mansarda del signor Frigerio fu trovata un’impronta di scarpe del quarantatre. Si era messa le pinne mi domando io? Non c’è nessun dato che collima col racconto di questi due e con la ricostruzione accusatoria.
Paola D’Amico: Infatti noi eravamo partite proprio con l’analisi all’inizio della tesi, della confessione di Rosa e Olindo confrontata con i punti salienti della scena del crimine. Tot punti raccontati in questa scena del crimine sono stati confrontati con le loro confessioni per vedere se collimavano o non collimavano. Basta mettere a confronto le loro confessioni e la scena del crimine per accorgersi che loro raccontano un’altra scena del crimine. Scena dove loro non sono mai stati.
Stefania Panza: Facciamo confrontare quelli che sono gli imputati dentro la scena del crimine quindi banalmente la signora Cherubini è stata uccisa con quarantadue coltellate cosa racconta Rosa, cosa racconta Olindo. Sarà durata due/tre coltellate prima di una costante “non ricordo”. Frigerio? “ah prima gli ho dato un po’ di stanghettate in testa” e Frigerio non ha preso stanghettate in testa. Non puoi dire così tante cose che non collimano. Per carità, nella confusione puoi dire che non ricordi tutto, ma dire due coltellate al posto di quarantadue, non aprire il cranio quando è stato aperto…
Paola D’Amico: La loro confessione andrebbe non soltanto letta ma anche ascoltate le intercettazioni. Perché se si ascolta si pensa “o ci fanno, o ci sono”. Attori consumati. Sembra che stiano raccontando una passeggiata in campagna. Una partecipazione emozionale di due marziani scesi sulla terra. Ascoltare le intercettazioni, ti apre il cervello. Come è importante ascoltare i momenti drammatici come quando Rosa capisce che lui ha deciso di confessare, di parlare e dice “fermatelo! ma cosa vai a dire?” Perché lei con l’istinto tipico delle donne, molto più istintive che razionali, capisce che questo ha deciso di far qualcosa. Perché glielo ha suggerito il carabiniere, perché glielo ha detto “Io so cosa devo fare, perché me l’ha detto il carabiniere. Io confesso. Tu vai a casa e io me la cavo con poco”. Rosa capisce la pericolosità di questa situazione ed è lei che si autoaccusa “Ho fatto tutto io, lui non c’entra”. Banalmente, lo anticipa.
Stefania Panza: Ci vogliono tre versioni per fare dare ad Olindo Romano una versione credibile della vicenda: quattordici ore di interrogatorio, tre versioni. Nella prima una confusione tremenda, nella seconda ci avviciniamo
Paola D’Amico: Soprattutto perché quella dei due collimi, perché a volte le loro versioni sono talmente fantozziane che sfasano.
Stefania Panza: Già nella prima sentenza di secondo grado e anche nella seconda, e questo è veramente indecoroso, le confessioni di Rosa e Olindo, vengono definite assolutamente sovrapponibili. Raccontano due cose diverse, di sovrapponibile non c’è nulla. Si rimpallano, lui dice una cosa e lei dice il contrario. Lei dice “a” e lui dice “z”: sovrapponibili, dove? Ma solo per i giudici. Non c’è niente di sovrapponibile lì dentro. E soprattutto non collima con la scena del crimine.
Paola D’Amico: Dopodiché se veramente ritieni che siano incapaci di intendere e di volere, e siano così morbosamente legati uno all’altro tanto da definirli con questo termine orrendo “quadrupede”, allora perché non gli fate una perizia psichiatrica? Perché a tanti si e a loro no? Questa è la cosa che è più sconcertante. Hanno dato la perizia psichiatrica ad un giudice di Piacenza dove Olindo si è trovato dopo aver aggredito, non so se verbalmente, la guardia carceraria. Finito il processo, già con la condanna in cassazione o qualche giorno prima hanno chiesto la perizia psichiatrica, ma per molto meno. La sua psicologa famosa, la Mercanti che lo aveva avuto in cura in carcere, l’ha sentito parlare e ha detto: qualcosa non torna. meno male, non siamo le uniche a pensarlo. C’è anche un magistrato di Piacenza. Qualcosa non torna
Stefania Panza: La perizia psichiatrica, lo dice anche il DSM4, non la si concede solo a “fine pena”. E’ proprio per capire la mente umana. In relazione al fatto-reato si vuole capire cioè, perché una mente ha deciso di fare quella certa cosa. Chiaramente più il fatto-reato è grave, più c’è necessità di comprendere, sotto il profilo della mente umana, cosa è successo. Quindi di fronte ad una strage…
Paola D’Amico: Ma anche perché c’è un diritto umano e credo che tutti abbiano diritto ad essere curati ed assistiti peraltro.
Stefania Panza: E quindi anche questa cosa, nonostante ci fossero state numerose richieste perché così lampante, o anche semplicemente per capire quanto queste persone fossero in se, quanto non lo fossero, quanto avessero bisogno di essere curati, non è stata accolta. Insomma, diamo una possibilità alla perizia psichiatrica per capire chi sono davvero, se posso avere commesso questo fatto e se si, dare una cura adeguata
Paola D’Amico: Questa storia non può finire qua. Credo che ci sia il dovere di ricorrere alle corti europee, di chiedere aiuto anche a livelli superiori. Questa storia, non può assolutamente finire, perché è un buco nero che aperto, rischia di trascinare dentro tanti altri delitti. E’ un buco nero.
Stefania Panza: Ed è anche brutto aspettare, vedi anche il caso del figlio De La Torre, vent’anni per arrivare ad una conclusione diversa, voglio dire: adesso, gli strumenti li abbiamo, la scienza c’è, le possibilità di verifica ci sono. Perché dobbiamo aspettare.
Paola D’Amico: E perché dobbiamo accontentarci?
Stefania Panza: Già, perché dobbiamo accontentarci?
Marina Angelo
Montaggio: Giovanni Mercadante