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Erba, un caso da riaprire? Intervista a Paola D’Amico e Stefania Panza

Creato il 21 giugno 2011 da Yourpluscommunication


Erba, un caso da riaprire? Intervista a Paola D’Amico e Stefania Panza

Strage di Erba, 11 dicembre 2006. In provincia di Como, vengono uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la nonna Paola Gelli e la vicina di casa Cherubini. Si salva solo il marito di quest’ultima, Mario Frigerio perchè creduto morto. Il 3 maggio 2011, la Cassazione ha definitivamente condannato Olindo Romano e Rosa Bazzi (già condannati all’ergastolo) colpevoli. Ad oggi molti però, restano i dubbi da chiarire, sulle prove, sull’inchiesta, sulle carte. Da queste ultime in esclusiva, Notte Criminale, intervista Paola D’amico e Stefania Panza, autrici di “Erba, analisi di un delitto. Una strage imperfetta

Erba, un caso da riaprire? Intervista a Paola D’Amico e Stefania Panza

Due giornaliste professioniste che non hanno seguito il “caso Erba”. il vostro libro nasce per caso?

Paola D’Amico: Nasce come tesi per un master in criminologia. Non avevamo seguito il caso di Erba all’epoca però, abbiamo cominciato seguendo il metodo d’analisi a “pista fredda”, partendo, cioè dalle carte.

Un lavoro, in realtà, che nel nostro mestiere si dovrebbe fare sempre ovvero: vedere e raccontare partendo dai fatti.

Concluso il corso di studi, abbiamo deciso di continuare perché troppi erano i dubbi che avevamo incontrato e, soprattutto, c’erano troppe cose non approfondite e non soltanto da parte dei colleghi, che si erano occupati del caso, ma anche da parte degli inquirenti. Era il periodo dell’appello


Stefania Panza
: Quando abbiamo incominciato a lavorare su queste carte, erano talmente tante che, appunto, i dubbi e le incertezze, per amor di verità, siamo volute andare un pochettino più a fondo.

E purtroppo, più andavamo a fondo e più ci rendevamo conto che la parte investigativa, in un primo momento, e la parte inquirente, in un secondo momento, non avevano fatto bene il loro lavoro.

Erba, un caso da riaprire? Intervista a Paola D’Amico e Stefania Panza

Perché? Cosa avete scoperto?

Paola D’Amico: Questa era una storia che doveva chiudersi probabilmente con un processo a porte chiuse senza, in realtà, portare testimoni, prove, carte. Ci sono infatti prove a discolpa degli imputati che non sono state prese in considerazione. Carte tenute dagli inquirenti nei cassetti e scoperte, all’epoca, da colleghi, inviati come, per esempio, la perizia dei RIS.

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Stefania Panza: Noi, in questa storia, siamo partite al contrario. Abbiamo preso quelle che dovevano essere le prove a CARICO di Rosa e Olindo, cioè: la testimonianza di Mario Frigerio, la macchiolina di sangue di una delle vittime sempre sulla macchina di uno degli imputati (Olindo Romano) e abbiamo cercato di verificarle. Questa verifica, purtroppo, ha dato dei frutti pessimi nel senso che: non solo secondo noi ma secondo molti scienziati che hanno fatto parte del CTU della difesa e per quelli al di fuori di questa storia giudiziaria, lo “sviluppo” delle carte le ritengono assolutamente non certe. Quanto meno dubbie. Quindi noi diciamo: una persona deve essere colpevole OLTRE ogni ragionevole dubbio. Ecco, questi dubbi non sono stati fugati. E quindi, purtroppo, abbiamo un pochino l’amaro in bocca perché il rischio, grosso, (se non addirittura certezza) è che ci siano due persone condannate all’ergastolo che stanno scontando una pena per un reato che non hanno commesso.

Erba, un caso da riaprire? Intervista a Paola D’Amico e Stefania Panza

Paola D’Amico: C’è un dato di fatto: tutti coloro che si sono lasciati sfiorare dal dubbio, come noi, e che hanno avuto il coraggio e la forza di cominciare a leggere le carte, inevitabilmente, sono passate dall’altra parte della barricata sono diventate “innocentisti”. Tutti.

Professionisti come il Prof. Bruno, criminologo che in un primo tempo, nel clou della vicenda in cui si erano portati come mostri Rosa e Olindo, si era espresso come “colpevolista”. Quando è stato interpellato da noi per un capitolo del libro e ha visto le foto delle ferite delle vittime, in realtà, ha cominciato a dire «no, qualcosa non torna». Ospite ad un convegno che abbiamo organizzato il 26 febbraio (per discutere non del caso in se ma a partire da questo caso, verificare le possibilità che una testimonianza possa essere non solida, o un ricordo possa essere un falso ricordo), il prof Bruno ha sposato la causa “innocentista”, forse più di noi.

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Stefania Panza: Fondamentalmente queste prove che sono state così chiamate in realtà, non hanno il fondamento vero della prova. Non ci sono grandi riscontri o, quantomeno, ci sono tutta una serie di dubbi che, come dicevamo prima, non sono stati fugati. A ciò si aggiunge tutta un’altra serie di atti che non sono stati approfonditi. Dico un esempio banale su tutti: Rosa Bazzi è asmatica.

Ma, asmatica che se per caso l’odore di una sigaretta le finisce sotto al naso, non respira più. Allora noi diciamo: come è possibile che nel fumo di quell’incendio Rosa Bazzi sia stata in quell’appartamento per almeno quindici minuti? Asmatica com’è, Rosa Bazzi sarebbe morta. Sarebbe morta.

E questo, è un dato logico, banale. Oppure subito dopo: perché non fare un tampone faringeo per verificare la presenza di fumo nella gola di questi imputati? Oppure verificare, che ne so, se nei pronto soccorsi della zona quella notte, era andato qualcuno per carenza respiratoria o magari, per qualche ferita. Tutte queste cose, non sono state fatte nell’immediatezza delle indagini e, purtroppo, le prime quarantotto ore sono fondamentali.

Dopo, si comincia ad annaspare. Tanto che nelle famose quarantotto ore la notte stessa della strage, l’11 dicembre del 2006, la Procura fece una conferenza stampa, dicendo che Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef, quindi due delle vittime della strage, era colpevole. Peccato, che era in Tunisia. Quindi, la cantonata è cominciata subito.

Paola D’Amico: Ci sono poi tante cose che si potevano fare dopo e che non sono state fatte. Per esempio, sempre dalla famosa perizia dei RIS che non trova la presenza di Rosa e Olindo sulla scena del crimine e non trova tracce di macchie di sangue nella casa di Rosa e Olindo e quindi sono proprio i RIS che chiederanno di andare di nuovo a prendere le impronte dei due, per altro prese più volte mentre erano in carcere, e di quelle impronte che ci sono, perché i RIS ne rilevano nella scena del crimine, forse, si potrebbe o si sarebbe dovuto sapere di più: di chi sono quelle impronte? Visto che non sono di Rosa e Olindo, visto che non sono dei vigili del fuoco, che non sono dei soccorritori, che non sono dei carabinieri…e di chi sono?

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Secondo voi, perché la Procura di Como non si è avvalsa dei 5 mesi d’indagini fatte dai Ris di Parma nella casa di Rosa e Olindo e sul luogo della strage?

Stefania Panza: Noi lo abbiamo scritto anche nel libro e vogliamo sperare che, nella migliore delle ipotesi (migliore delle ipotesi) questa sia superficialità. La mancanza di ricerca della verità e la superficialità. Nel lavoro, purtroppo, Erba, come tanti altri di questi casi: Avetrana o la povera Yara a Brembate, accadono sempre in paesini dove, purtroppo, le forze investigative, le forze inquirenti, non sono sufficientemente preparate tanto che o non si trovano i colpevoli o, spesso, a vent’anni di distanza, viene fuori che il colpevole era qualcun altro. Quindi, nella migliore delle ipotesi, c’è la superficialità. Purtroppo indagando anche al di fuori di quello che sono gli atti, ci siamo fatte delle idee che vanno oltre la superficialità…però…sono idee, sono ipotesi.

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Paola D’Amico
: In questi mesi in cui abbiamo trattato di nuovo il caso, perché bene o male ci sono state diverse trasmissioni televisive, questa voce diversa a quella comune che li vuole colpevoli ha avuto risonanza attraverso “Chi l’ha visto?”, “Quarto Grado”, “Matrix”, che hanno avuto il coraggio di rivedere il caso prendendo in considerazione le voci di questi autorevoli professionisti, ci siamo accorte che il pubblico vorrebbe saper di più. Nelle trasmissioni radio, in cui la gente chiamava dicendo «ma allora chi è stato?» aggiungendo «ma allora potrebbe capitare a tutti » sia essere dalla parte delle vittime, sia essere dalla parte dei colpevoli o dalla parte dei non colpevoli


La ricerca della verità impone un’analisi al di sopra degli schieramenti (colpevolisti/innocentisti). Questo è successo a voi che però,ad un certo punto, siete state additate come innocentiste. “Pazze”…?!

Stefania Panza: Dopo diventa un problema di coscienza, di civiltà e di diritti umani. Perché quando hai, non dico la certezza, ma dei fortissimi dubbi che ci siano due persone in galera, che non c’entrano nulla, ritengo che se hai qualche strumento, qualche mezzo, è proprio un problema personale: Non puoi fare finta di niente. Ed è anche una delle motivazioni del libro che abbiamo scritto: Non si può far finta di niente. Non si può raccontarsela al bar fra colleghi “ah ma sai, forse, secondo me” e rimane tutto lì. No, devi fare qualche cosa che va oltre. Fare qualcosa di più. Devi muovere le coscienze. Metterla all’attenzione del pubblico.

Erba, un caso da riaprire? Intervista a Paola D’Amico e Stefania Panza

Nel nostro mestiere, fra le altre cose, ha il dovere di comunicare e, inevitabilmente può essere che tu diventa “innocentista” come in questo caso. Ma perché è talmente lampante che, inevitabilmente prendi una posizione. E non mi piace neanche quando si dice, è vero che fa parte del nostro lavoro cercare di mantenere un’obiettività e cercare di rimanere al di fuori delle parti, però è anche un po’ un alibi…«Ah ma io..io sono un giornalista, io non posso prendere le parti, io devo mantenere una correttezza, io non posso dire se sono colpevoli o innocenti» ed invece ad un certo punto io credo che uno debba prendere parte. E’ obbligato, proprio per un problema di coscienza e di diritti umani. Perché se tu sai che due persone sono in galera ingiustamente, tu devi schierarti. Non ci si può sempre nascondere dietro l’alibi del “ah ma noi siamo al di fuori”. Certo, puoi stare al di fuori nel momento in cui tu comunichi sulla stampa ma, infatti, noi abbiamo fatto un libro per dire quello che personalmente riteniamo.


Paola D’Amico
: Se avessimo seguito questo caso come giornaliste, probabilmente avremmo fatto quello che hanno fatto i colleghi del tg1 e del tg2, inviati, Greta e Vitale, che hanno raccontato quello che altri non raccontavano. Quelli che hanno tirato fuori le carte che erano state tenute in un cassetto che, guarda caso, erano prove a discolpa di Rosa e Olindo. Cioè, racconteremo tutto quello che vediamo, non soltanto una parte. Quindi inevitabilmente noi veniamo bollate come “innocentiste”, in realtà noi abbiamo sempre detto “non abbiamo scritto che Rosa e Olindo non erano colpevoli”. Abbiamo scritto che le prove non portavano a loro. Abbiamo raccontato quello che altri non avevano il coraggio di raccontare. Non abbiamo sposato una tesi. Una tesi che era stata sposata sin dall’inizio, perché i due, sono finiti in galera e li hanno portati via anzi tempo, perché altrimenti venivano lapidati dalla folla. Perché?! Perché già questa era la posizione.

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Paola D’Amico: O come ha scritto il collega Montolli che durante il secondo grado, ha fatto uscire, allegato al settimanale “Oggi”, questo volume che si chiama “Enigma Erba”, dove anche semplicemente, ha riportato una serie di atti che prima non erano pubblici e che comunque non erano nelle disponibilità di avvocati e soprattutto di giornalisti, dove diceva «Ragazzi, qui c’è tutta questa serie di cose: siamo sicuri che sono loro?». Al di là di quello che succede sulla stampa, sono gli inquirenti sia gli investigatori sia gli avvocati, che dovrebbero accertare tutto quello che va accertato. Quando questo non viene fatto, c’è puzza di bruciato. Mi dispiace dirlo. E a me dispiace perché sono una legalitaria incredibile. Credo fermamente nella giustizia e credo nello Stato. Quando c’è un atto viene tenuto nascosto per venti giorni, in un cassetto, io devo pensare alla malafede.

Erba, un caso da riaprire? Intervista a Paola D’Amico e Stefania Panza

E’ inevitabile pensare alla malafede. Quando la perizia dei RIS che è una prova a discolpa da parte degli attuali imputati ed è un dovere del Pubblico Ministero tenerne conto (è un articolo del codice di procedura penale) anche delle prove a discolpa e questo non viene inserito dallo stesso Pubblico Ministero nel fascicolo dipartimentale, io penso alla malafede. Perché da quando Azouz, che per carità è un delinquente, ma non per questo un delinquente in quanto tale, allora non può dire la verità. Di nuovo ha detto “Secondo me non sono loro” , perché non viene sentito? E penso un’altra volta alla malafade. E siamo già a quattro. Ho un elenco lunghissimo. Quando la famosa “macchia di prova” non viene fotografata, nemmeno fotografata…la morfologia di una macchia di sangue è fondamentale per capire come questa macchia di sangue è arrivata nel tal posto, penso ancora una volta alla malafede!! E allora, mi vengono i dubbi. Ancora di più.
Io non ho paura. Io parlo apertamente di “Malafede”. Mi spiace. Potrebbero esserci stati mio padre e mia madre al posto di Rosa e Olindo.

…continua

Marina Angelo

Montaggio: Giovanni Mercadante


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