Si sta rialzando, senza per altro essere mai caduto. Siamo stati tra i pochissimi a non sentenziare la fine politica di Berlusconi nove mesi fa; non ci ha sorpreso, quindi, l’annuncio, pur con qualche residua riserva, della sua ricandidatura alle elezioni a capo del futuro partito di centrodestra. Non che tutto fosse predeterminato nei particolari e nel destino delle persone e dei figuranti. Il canovaccio prevedeva, nel 2011, una trama a maglie larghe con possibilità di emergere a ciascuno dei tre o quattro primi attori sulla base delle rispettive capacità di cogliere le opportunità del momento.
La situazione è certamente complessa e caotica e obbliga la frazione dominante, quella che dispone nello scacchiere geopolitico e nazionale di maggiore libertà di movimento, a valutare e concedersi diverse opzioni.
La recente intervista di Berlusconi del 16 luglio alla Bild Zeitung, debitamente filtrata attraverso le lenti delle dinamiche conflittuali e collusive tra gruppi di potere di diversa consistenza, offre il filo conduttore per fissare alcuni paletti utili a delimitare l’arena e il ruolo giocato in essa da alcuni attori.
Più che solidi paletti, sono ancora delimitazioni provvisorie e improvvisate come quelle fissate quando era ancora consentito giocare a calcio per strada o nelle piazze.
Questo soltanto ci consente, tuttavia, la vischiosità della situazione, il nostro bagaglio teorico e le entrature inesistenti necessarie all’accesso alle informazioni.
Per contestualizzare l’intervista, tre flash apparentemente distanti tra loro:
- Tre settimane fa il Presidente francese Hollande incontra il riluttante Primo Ministro Britannico Cameron per garantirgli, in una eventuale Unione Europea a due velocità, un posto in prima fila accanto a Francia e Germania. Il quadro formale, per ora interno alla prospettiva di Unione Europea, è garantito, almeno nelle intenzioni, dagli accordi di cooperazione rafforzata consentiti dal Trattato di Lisbona; le incognite di questa seconda opzione sono pesanti, legate soprattutto alla capacità di sopportazione dell’attuale politica predatoria subita da Spagna e Italia, ad un eventuale vistoso cedimento della Germania, ad una Gran Bretagna estranea all’euro, ma interessata ad un progetto modificato di unione bancaria europea. È, comunque, evidente il tentativo, in caso di divisione della Comunità Europea, sin anche nell’eventualità estrema di una rottura della zona euro, da una parte di limitare l’influenza diretta della Germania alla cintura immediata dei paesi slavi europei, di legarla comunque agli interessi americani attraverso i condizionamenti interni diretti e i rapporti preferenziali con una Francia e Gran Bretagna sempre più allineate alle strategie atlantiche più oltranziste; dall’altra di controllo diretto americano dell’area mediterranea con il riconoscimento all’Italia di un qualche ruolo nel bacino meridionale. Una situazione, quindi, di paesi europei i quali per tutelarsi dalle egemonie periferiche non esitano a subordinarsi ancora di più alla potenza dominante. Una condizione ottimale per l’arbitro giocatore, già vissuta in maniera più discreta negli anni ’30 del secolo scorso, con il tallone militare e la generosità condizionata nel dopoguerra, che si ripropone ancora oggi in condizioni affatto diverse.
- Due settimane fa, Massimo Mucchetti, sul Corriere, dopo una serie di articoli nei quali cautamente perorava la causa della salvaguardia della grande industria italiana, compresa quella strategica, arriva in un editoriale a sentenziare che, dopo tutto, gli interessi di Finmeccanica ed ENI non coincidono necessariamente con l’interesse nazionale a mantenere il controllo su settori industriali e reti infrastrutturali vitali. Da qui l’interesse a scorporare SNAM da ENI, a mantenere l’industria ferroviaria e della cantieristica navale in mani italiane distinte da Finmeccanica. A parte il velleitarismo di alcune operazioni; a parte il fatto che il destino di alcune privatizzazioni, soprattutto delle aziende di servizi, è ancora dibattuto tra chi vorrebbe gestirlo per rinvigorire, si fa per dire, lo spirito imprenditoriale nostrano e chi vorrebbe cederle con il corollario ovvio delle garanzie tariffarie al miglior offerente, cioè a società estere, a fini di ripianamento parziale del debito pubblico, il retro pensiero di queste tesi consiste nel prendere atto della dipartita e della estraneità al paese, ormai, della residua grande industria strategica e nel cercare un ruolo complementare indebolito e ancora più subordinato nel disegno tracciato dalle forze dominanti, spacciando questi propositi per salvaguardia degli interessi nazionali. Ho l’impressione che vedremo crescere continuamente il numero di questi “sovranisti”.
- Da mesi sono scomparse o migrate a trattare di argomenti più innocui su riviste di costume la quasi totalità delle rare voci, alcune di nostra conoscenza le quali, anche se in maniera schizofrenica, hanno denunciato poc’anzi sulle testate nazionali le malefatte in Europa e in Nord-Africa.
Queste tre notazioni, inadeguate a fornire un’analisi esaustiva, ma sufficienti a cogliere lo spirito dei tempi, introducono al senso delle dichiarazioni del redivivo.
Nell’intervista non mancano le affermazioni significative.
“La forza principale” di Mario Monti “sta nell’avere il più ampio supporto che mai un presidente del Consiglio abbia avuto” “il principale motivo che mi ha spinto a fare un passo indietro: volevo consentire l’approvazione di riforme anche costituzionali”
Sorvolo sull’implicito richiamo all’etica personale e sulla serena volontarietà del nobile gesto. L’avvento di Monti è stata la scelta “oculata” di chi non voleva rischiare di veder naufragare il programma di resa e subordinazione del paese tra le incertezze del Cavaliere, chiamato a smentire se stesso troppo platealmente e l’inerzia contestativa dell’antiberlusconismo. I varchi apertisi negli schieramenti hanno creato le condizioni per rimescolare le forze politiche e per far emergere nuovi leader. Ci hanno provato alcuni esponenti e tecnocrati legati al mondo cattolico, in particolare quello legato alla conferenza episcopale. La Chiesa, però, ha ancora parecchi conti da regolare all’interno e con i centri anglosassoni. Gli attacchi indirizzati a Formigoni, alla componente, quindi, più strutturata del collateralismo cattolico, quella stessa che ha saputo tessere importanti legami economici nel proprio paese e, in passato, relazioni con settori del mondo arabo invisi agli americani ne sono testimonianza. Le stesse indicazioni scaturite dai seminari sono di una estrema povertà, rispetto alla gravità dei problemi; pongono l’enfasi sulle potenzialità del terzo settore, sulla salvaguardia della piccola industria e dei servizi con una particolare enfasi sulla solidarietà che pare più un’implorazione al proseguimento delle classiche politiche ecumeniche degli anni ’70 che una indicazione sui necessari sconvolgimenti del paese. Da un gruppo che, in nove mesi, ha saputo partorire un decreto sulla crescita vacuo (Passera) e un progetto di spending review, nemmeno di riorganizzazione, non paragonabile nemmeno lontanamente al progetto per altro fallito di dipartimentalizzazione della Pubblica Amministrazione varato dall’altro Governo Tecnico di venti anni fa, quello di Ciampi, non potrà emergere nessun leader autorevole. A sinistra, il PD deve la propria sopravvivenza alle disgrazie dello schieramento avverso; si rivela del tutto incapace di rivolgersi ai ceti medi professionali e alla media e piccola imprenditoria, ignora del tutto le sorti della grande azienda strategica se non nelle possibilità di realizzo finanziario perché è ostaggio più che portatore degli interessi di quei ceti che comunque dovranno subire un attacco frontale. Le conseguenze logiche sono il suo rinchiudersi nella classica politica europeista degli ultimi decenni e in una rivendicazione velleitaria meramente redistributiva delle risorse che lo condurrà ai peggiori compromessi con gli attuali centri dominanti e con la completa subordinazione ideologica ad essi. Non è un caso che il buon D’Alema, comunque il più lucido tra questi, continui ad abbeverarsi apertamente alla fonte di Bill Clinton e, suppongo, relativa consorte.
Tutti temi da affrontare con attenzione nei prossimi articoli.
Di fronte a questa povertà di spiriti, Monti, con la sua politica di attacco frontale alla condizione di vita e alla capacità di reddito di ceti più legati al centrosinistra, di erosione subdola delle condizioni operative dei ceti professionali e imprenditoriali, di annunci di radicali tagli, riforme e riorganizzazioni che si risolvono per lo più in provocazioni, sta ricreando le condizioni di una deleteria contrapposizione tra destra e sinistra del tutto fuorviante rispetto alle priorità dell’attuale contingenza politica, una fondata sul liberismo e sull’antistatalismo, l’altra sulla redistribuzione pubblica. Una nuova rilegittimazione di forze pronte ad un accordo fondato sull’immolazione di settori del proprio elettorato, se in grado di gestire i conflitti; dedite a sviare le pulsioni, in caso di sconvolgimenti incontrollabili.
La resurrezione di Berlusconi, in questo contesto, assume un ruolo nevralgico su più aspetti.
Non si tratta solo di contenere una disfatta del suo partito, per altro alimentata dalle sue stesse scelte politiche degli ultimi tre anni, tale da consentire la riproposizione dell’attuale governo anche dopo le elezioni. Questo è solo uno degli scenari possibili e, probabilmente, il più banale. Nell’elettorato di centrodestra sono presenti, in maniera più consapevole e pragmatica, le pulsioni antieuropeiste che potrebbero far maturare posizioni sovraniste e gruppi dirigenti in grado di portarle avanti; nel seno stesso di quei ceti sta, comunque, maturando la consapevolezza di dover ritagliare e contrattare, anche nei casi di peggiore subordinazione, un ruolo complementare nella contesa geopolitica. Una volta normalizzata la Lega, Berlusconi appare ancora una figura capace di condurre quei ceti nel solco europeista, magari sotto la guida di Monti o di qualche altro tecnocrate; in caso di dissoluzione dell’euro o di sdoppiamento della Comunità Europea, appare attualmente l’unica figura in grado di ricondurre gli inevitabili sussulti nazionalisti che sorgerebbero nel solco dell’atlantismo e della fedeltà agli Stati Uniti. In questo secondo scenario, figure come quelle di Monti diventerebbero impresentabili, al pari della quasi totalità della sinistra.
Quali siano le relazioni fondamentali da salvaguardare e le rotture da provocare, Berlusconi lo ha già rivelato negli anni ’90, quando ha revocato la partecipazione dell’Italia al progetto Airbus, alla ricerca spaziale europea e ha sostenuto successivamente l’interventismo americano in Iraq; lo ha rispiegato esplicitamente nella intervista quando dice che “vorremmo una Germania più europea e non un’Europa più tedesca” e che “ci aspettiamo che Berlino sviluppi una politica europea lungimirante, solidale e di largo respiro. Le faccio un esempio: quando si è trattato di nominare qualcuno per la carica di Presidente del Consiglio Europeo, abbiamo proposto Tony Blair. Così gli Stati Uniti avrebbero finalmente saputo a chi rivolgersi per conoscere la posizione di tutta l´Europa. Poi, però, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno fatto una scelta diversa, con il chiaro intento di continuare a tenere la politica europea nelle proprie mani”. Un vero e proprio avvertimento ai tedeschi su quale sarà la sua reale forza ispiratrice nel prossimo futuro. Lo ha offerto visivamente con il recupero progressivo della sua squadra più filoatlantista, a cominciare da Ferrara per proseguire con Martino, volatilizzatasi ad inizio millennio.
Ma anche un utile richiamo involontario a noi a non farci ingannare dalla sinistra radicale indipendentista ed antieuropeista che fonda la propria azione sulla contestazione del presunto potere finanziario mondialista, sulla predominanza delle mire egemoniche tedesche in Europa e sulla critica di uno sfruttamento e una pauperizzazione generalizzata che punta, di fatto, a rivendicazioni redistributive o palingenetiche del tutto avulsi da un programma di formazione di un ceto politico alternativo e di creazione di risorse e strategie politiche necessarie a sostenere le aspirazioni di un blocco sociale e di un paese.
La forza dell’attuale Governo Monti, molto più solida che nelle apparenze, non poggia solo sulla constatazione che “la sua forza principale sta nell’avere il più ampio supporto che mai un presidente del Consiglio abbia avuto”. Di per sé questa affermazione di Berlusconi è una tautologia. Essa risiede nella consapevolezza diffusa, in tutti gli strati sociali, del necessario rivolgimento della condizione di questo paese; Mario Monti, sino ad ora, è l’unica figura accreditata per questo rivolgimento, con gaudio dei ceti compradori, inquietudine di quei particolari strati parassitari destinati a scomparire e disperazione impotente del resto della popolazione. Fallita l’operazione di travaso verso altri lidi del suo elettorato, Berlusconi sarà la figura di complemento di questo progetto, se non il protagonista in caso di eventi più traumatici e dirompenti.