Quella segnata dal 51,8 per cento alle presidenziali, è l’ottava vittoria elettorale consecutiva per Recep Tayyip Erdogan, primo ministro ininterrottamente dal 2003 e da ieri nuovo presidente della Turchia. Le accuse di corruzione, e di dispotismo, con cui le opposizioni hanno intavolato la campagna nei mesi passati, non sono state sufficienti: il primo sfidante, Ekmeleddin Ishanoglu, ha ottenuto solo il 38,5%.
Erdogan regge, tra incoerenze, prove di forza, e immense difficoltà.
Se c’è una cosa che ha tenuto insieme fin dall’inizio i voti attorno all’AKP – il Partito Giustizia e Sviluppo di Erdogan – è sicuramente la crescita economica, superando altre tematiche – prima fra tutte l’ideologia islamista e tutti i problemi connessi. Negli ultimi dieci anni, le ondate di capitale privato internazionale, hanno garantito un picco dei consumi (pubblici e privati) e un mostruoso boom del settore delle costruzioni. Una situazione portata all’eccesso, che come analizza Rahmi Koc (presidente onorario di Koc Holding, il più grande conglomerato industriale delle Turchia) su Foreign Affairs, ha creato un problema strutturale all’economia turca: «la dipendenza dai capitali esteri». Primo enorme problema del Paese, che il neo-presidente sa già di trovarsi davanti. Di solito le crescite economiche basate sui consumi e sulle costruzioni non reggono granché: serve produttività (che richiede una popolazione più istruita), innovazione e ricerca (che richiedono maggiore libertà intellettuale), partecipazione femminile al mondo del lavoro (che richiede una visione più aperta e laica, al di là delle promesse).
Dietro a Erdogan si aggira lo spettro dell’autoritarismo: il fatto che nonostante un ambiente illiberale l’economia è continuata a crescere, è soltanto una dato momentaneo – che ha portato i cittadini al voto, magari, ma che difficilmente potrà avere un lungo futuro. I rapporti tra il business world dell’occidentalizzata Istanbul e l’ex primo ministro è stato a lungo freddo. Nel 2008, Erdogan ha chiesto al pubblico di smettere di leggere i giornali appartenenti a Dogan Group del magnate Aydin Dogan. L’anno successivo, il governo ha multato il gruppo di 2,5 miliardi dollari (cifra senza precedenti) dopo una verifica fiscale. Nel 2013, alcuni revisori del fisco (accompagnati dalla polizia) hanno fatto irruzione anche in tre delle principali società appartenenti alla Koc Holding (che è attiva, tra le altre cose, nei settori energetico, automobilistico, dei trasporto, della difesa). L’innesco dei blitz fiscali, è probabilmente legato al fatto che un hotel appartenente alla holding, aveva dato rifugio a persone in fuga dalla repressione della polizia sui manifestanti pacifici di Gezi Park.
Gezi Park, il simbolo, arrivato qui da noi insieme alle pressioni sui social network, della soperchieria di Erdogan.
Ma Dietro a Erdogan, c’è anche una politica estera molto controversa e frutto di una visione del mondo che preoccupa l’Occidente parallelamente all’autoritarismo. Con i risvolti, negativi, pagati direttamente pure dall’economia: l’impulso sunnita (settario) del governo dell’AKP, ha portato il Paese a inasprire i propri rapporti con la Siria, aggravando la guerra civile e fornendo un bacino colturale (e culturale) ideale, per realtà islamiste come Isis e al-Nusra. Conseguenza: la Turchia rischia di perdere molto anche dell’Iraq sciita, secondo mercato per esportazioni con 11,3 mld di dollari – prima soltanto la Germania con 13,3 (dati 2013).
Inoltre, adottare la causa dei Fratelli Musulmani ha comportato l’allontanamento di Istanbul dall’Egitto e simultaneamente da Israele. Ora, in un momento in cui i passaggi iracheni sono saltati per la presa del potere del Califfato, la business community anatolica avrebbe bisogno dei porti di al-Arish e Ashdod per raggiungere i Paesi del Golfo attraverso la Giordania, ma tutto è complicato dalle pessime relazioni diplomatiche di Erdogan. E l’economia soffre.
Anche l’alleanza con gli Usa vacilla: sul tavolo le basi militari, che faranno da collante per quei rapporti in futuro, ma anche la possibilità dell’inserimento delle Turchia in accordi di libero scambio – quelli da cui l’UE la sta mettendo da parte. Quando Rifat Hisarciklioglu, presidente della Camera di commercio nazionale turca, si recò (in luglio) negli Stati Uniti, la ritorno raccontò che il principale argomento di discussione con gli interlocutori dell’Amministrazione Obama e del mondo economico americano, non erano stati i flussi commerciali, ma l’ascesa dell’Islam militante in Medio Oriente e il ruolo della Turchia in esso.
Il simbolo del declino del soft power turco in Medio Oriente – su cui si basava molta dell’influenza del paese in Occidente e nella Nato -, è sicuramente la vicenda dell’ambasciata di Mosul. Nel 2009 il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu (l’uomo secondo cui Assad può essere deposto in meno di sei mesi, colui che ha definito Israele «un tumore geopolitico», e il politico che adesso è il più papabile candidato a sostituire Erdogan nel ruolo di premier) nel discorso di inaugurazione della sede diplomatica diceva: «Noi vi vediamo come una parte di noi stessi; io sono il vostro ministro». Che sia stato un segno venuto allo scoperto delle mire neo-ottomane della Turchia di Erdogan, e cioè della volontà di esercitare un qualche genere di potere sull’arco sunnita che va dai Balcani, all’Asia Centrale e al Medio Oriente? Chissà, fatto sta che poi, cinque anni dopo, gli uomini del califfato, sono entrati a Mosul e hanno piazzato la propria sede nell’edificio, prendendo i 49 cittadini turchi che ci lavoravano (compreso l’ambasciatore) in ostaggio. Chiamarlo fallimento della politica estera di Davutoglu sembra un eufemismo.
Molti temono che la Turchia possa diventare il prossimo obiettivo dello Stato Islamico. Certo non sarà un qualcosa di simile a quello visto in Iraq nei primi giorni di giugno, ma l’infiltrazione e la ramificazione del gruppo all’interno di un paese Nato è una circostanza preoccupante.
I media turchi parlano poco degli ostaggi diplomatici: un bavaglio che Erdogan ha scelto per “preservare” i suoi cittadini da questioni spiacevoli che coinvolgono il Paese. Ma il problema c’è: il giorno di Eid al-Fitr non era raro assistere a sermoni in cui si chiedeva compassione e aiuto per i mujaheddin e si invocava alla partecipazione alle azioni del Califfo. «Il nuovo salafismo in Turchia, ha raggiunto alti livelli di strutturazione», dice Rusen Cakir citato anche da al-Monitor, Lo Stato Islamico non è mai appoggiato formalmente, anzi il governo lo ha dichiarato “attività terroristica”, ma in molti angoli intellettuali ne viene condivisa l’ispirazione (meno le gesta) e difficilmente finisce sotto critiche aperte. Per esempio, sembra – secondo l’interrogazione parlamentare del vicepresidente del CHP, principale partito di opposizione – che durante quei sermoni che incitavano alla jihad, le forze di sicurezza siano state invitate a non intervenire. Chi aveva dato l’ordine? Il governo o strutture parallele di influenza mosse dal Califfo?
Già durante il mese di giugno, l’IS aveva dato prova di forza incendiando le moschee di Allah-u Akbar e Muhammediye, entrambe nella capitale. Azione pianificata contro edifici di culto sciita dopo minacce agli imam, e probabilmente legata a gruppi locali dello Stato Islamico.
I numeri sono grossi: oltre 5000 persone avrebbero attraversato la Turchia per dirigersi a combattere jihad in Siria, molti sarebbero cittadini turchi, molti foreign fighters. La gran parte arruolati nelle file dell’ex Isis.
La troppa tolleranza mostrata dal governo di Erdogan verso i combattenti sunniti – anche come piano geopolitico contro la Siria – sta mettendo in serie difficoltà il paese, sia dal punto di vista delle sicurezza, sia da quello della rappresentatività internazionale.
I soldi dei finanziatori occidentali stanno iniziando a scappare, anche come conseguenze del raffreddamento di diversi rapporti diplomatici (su tutti con l’America, ma pure con l’UE), facendo vacillare un’economia strettamente legata agli afflussi esterni.
L’ambiguità di Erdogan nei confronti del radicalismo islamico è insieme al totalitarismo, la matrice dei problemi del Paese. Ora da presidente, qualcosa cambierà?
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