Guardate, in questi giorni non c’è notizia che non mi stimoli eccessivamente il sistema nervoso.
L’antefatto è sbriciolato nelle pieghe di mattinate molto simili a quella di ieri (ma furono anche pomeriggi). Una decina di persone vestite più o meno bene (camicetta e gonna al ginocchio le donne, camicia stirata, giacca e cravatta gli uomini), gesticolavano mentre parlano di interpellanze, di intrighi nazionali e internazionali, a seconda del periodo nel quale veniva svolto il viaggio.
Il viaggio stesso, dignitoso e squattrinato, veniva fatto in metropolitana. Espressioni scettiche, alzate di spalle, aria di cospirazione.
Ce n’era sempre uno che aveva l’aria di saperne più degli altri e alzava di poco il tono della voce: si andava a contrattare con alcune delle più alte cariche dello Stato. C’era chi aumentava temporaneamente di statura. Il silenzio intorno al gruppetto si allargava, come gli sguardi che sbirciavano le nostre cartelline, le frasi passate a mezza bocca da un passeggero a un altro.
Tutto quello sforzo nella cura della forma (ai luoghi delle istituzioni si deve del rispetto), mentre le ascelle bagnavano le cuciture delle maniche anche in pieno inverno, visto che andavamo dove avremmo dovuto reprimere la rabbia personale per rappresentare in modo equidistante quella di tutti, e quanta fatica solo nel prepararsi mentalmente all’azione.
Andavamo a rappresentare quegli stessi che il più delle volte chiedevano proprio a me di alzare la voce, di battere i pugni sul tavolo (sono una che quando si arrabbia se ne accorge anche l’altro capo del mondo) mentre, un po’ per natura, un po’ per strategia, volevo solo portare a casa i risultati e badavo a far sottoscrivere col sangue impegni ufficiali sopra richieste chiare e precise. Sapendo benissimo che in questo Paese, specie in politica, la parola data vale quanto un fazzoletto per il naso. E ogni volta ricominciare era più faticoso.
Era proprio quella sensazione di fatica che mi si appiccicava addosso anche subito dopo il risveglio, la doccia e i vestiti puliti, che mi obbligava a guardarmi attorno, e stare attenta a non dare nell’occhio in metropolitana.
Perché fino a un minuto prima avevo preparato discorsi e stampe di documenti lavorati a lungo, anche per giorni, con gli altri. Documenti la cui redazione e la cui rappresentanza a volte avevamo strappato a stento dalla zampata dell’opportunista di turno. Uno portato in palmo di mano da gente molto esaurita.
Gente che non necessariamente viveva lontano da Roma, ma si dichiarava distante da quelli che chiamava “i giochi di palazzo”, che accusava me e gli altri di non riuscire a combinare nulla, fingendo di non accorgersi che si succedevano governi su governi e ciascuno demandava il da farsi a quello che l’avrebbe seguito.
Noi continuavamo a tenere il punto, l’unico punto da tenere fisso, quello che ci avrebbe reso giustizia, il riconoscimento di diritti negati che sarebbe dovuto arrivare legalmente, per essere certi che avrebbe resistito nel tempo.
Visto che di bambini si andava a trattare, e tra i numeri da una a tre cifre che a stento la mia coscienza riusciva a sopportare, c’era anche un “due”, le due mie figlie, che non potevo ancora chiamare con quell’appellativo.
Ma neanche lasciare che se ne occupasse un portavoce sbucato da chissà dove, che gridava alla carneficina arringando la folla dal comodo palco della propria indifferenza alla questione.
Non dico che quella linea di condotta sia sempre e in assoluto la migliore, che valga in ogni circostanza, perché le istituzioni sono una bella cosa, ma in astratto. Spesso sono gli accordi presi sottobanco a regolare il gioco.
Vedi il caso dei Marò, che alla fin fine sono sempre persone, portatrici di diritti universali, coi quali si sta giocando come con dei soldatini di piombo. Che ne so io se hanno ucciso o meno. Ci sono i tribunali per stabilire le colpe. Le leggi dei Paesi non si parlano? Si fa lavorare la diplomazia.
E io mi ero convinta che dietro alla decisione di non farli ripartire, anche se discutibile, ci fosse stata una strizzata d’occhio tra i due Stati e la bagarre conseguente fosse orchestrata apposta. Macché. La situazione è sfociata comunque in un pasticcio.
Forse a causa di differenze culturali (mettiamo di non aver sentito parlare di retroscena politico/commerciali)?
L’Italia si è andata a impelagare in questa crisi diplomatica in un momento di massima vacanza di autorevolezza al proprio interno e sul piano internazionale. In mezzo al guado del passaggio da un governo tecnico (che politicamente vale meno di niente) e uno ancora da costituirsi, se mai si costituirà.
In questo limbo non era pensabile che alcuno si assumesse la responsabilità di una decisione definitiva, giusta o sbagliata che apparisse agli occhi dell’opinione pubblica. In pratica, un fallimento annunciato fin dall’inizio. La cosa più grave, un giocarsi il tutto per tutto sulla pelle di due uomini, trattati come cavie da laboratorio.
È inaudita, come tante altre cose che avvengono in questi mesi, così che verrebbe voglia di lasciar correre, ma no, non lascio correre: è inaudita questa retromarcia. Olltretutto costituisce l’ennesima ammissione dell’inconsistenza del nostro Paese, l’ennesima riprova che chiunque voglia può manovrarlo come meglio lo aggrada, dall’esterno e dall’interno.
Non sto con i marò, né con gli indiani, sto con quelle regole che gli esseri umani hanno costruito nei secoli, per la sopravvivenza della specie: leggi che valgono per tutti, governi che prendono decisioni per il bene dei cittadini che li hanno eletti. Quella che una volta chiamavano democrazia, e oggi mi sembra sempre più utopia.
Mi ricordo che uno dei nostri, una gran persona, un gran papà, il giovedì sera a volte tornava in treno dalle sue parti, al Nord, dopo quattro giorni trascorsi in Parlamento. Imparai che spesso il giovedì era l’ultimo giorno della settimana lavorativa per un deputato di fuori Roma, ma almeno per il mio amico lo “sbraco” arrivava sempre dopo il lavoro.
Ieri era giovedì, e di mattina nel vagone della metro spiccavano una decina di persone vestite più o meno elegantemente. Spiccavano per la rara occasione di vedere età e decoro riuniti in un’unica persona. Sbarbati di fresco, capello perfetto, camicia stirata, cravatta, occhiali da sole (non da vista: sotto i trenta si usano le lenti) sulla testa.
Uno aveva attirato la mia attenzione di osservatrice indipendente e fuori concorso. Per convincermi a prenderlo in considerazione: “Carino” mi avevano fatto gli occhi, dandomi di gomito.
- Su coni e bastoncelli?
- Immagino. Ma che domande, si parla per metafora.
Accento (forse) veneto, parlava ad alta voce con alcuni pari requisiti della varietà delle interpellanze che gli veniva chiesto di preparare dai più disparati gruppi di elettori di ogni parte d’Italia. Neanche gli altri del capannello facevano molto per cercare di non dare nell’occhio. Il silenzio si andava allargando attorno all’epicentro d’attenzione che costituivano. Alcune donne allungavano le orecchie dandogli a malincuore le spalle. Perché erano proprio carini, bisogna che mi ripeta.
Due loro coetanei capitolini, la barba sfatta, jeans e giubbotto di pelle aperto sulla maglia sformata, gli occhiali scuri pure loro, ma calati sopra gli occhi, si passavano commenti a mezza bocca.
Uno l’ho sentito bene: “Ma vaffanculo”, che forse era detto solo per invidia. Loro a Montecitorio non so se entreranno mai, se nella vita non sceglieranno di lottare in prima persona per qualche diritto leso da difendere.
Subsonica – Tu menti (cover CCCP)