Dispiace ricordarlo soltanto dopo il ripescaggio da parte di un regista bollito ormai da svariati anni che, a corto di risorse, come del resto tutti gli opinion leader di sinistra contemporanei, non ha trovato altro modo di mettersi in luce se non sfruttando il carisma di uno dei più grandi maudit del calcio:
Madame et monsieur
Eric Cantona
Lo volevo celebrare ben prima di Ken Loach, riparo adesso che la sua recente trasformazione in attore lo sta nuovamente portando alla ribalta, dopo i fasti degli anni'90, quando, con la sua terrificante personalità, annichiliva difensori e giornalisti.
Mi è sempre parso molto strano notare quanto i campioni dello sport siano a disagio al di fuori del campo di gioco, non penso sia neanche necessario esemplificare la questione riferendomi ai vari del Piero o Cannavaro, furie agonistiche col pallone tra i piedi, pezzi di legno in versione testimonial, come se il fiato di una curva intera pesasse meno dello stacco di coscia della Chiabotto.
La personalità non cede all'imbarazzo, lo affronta, nel caso, lo supera oppure, se non ci riesce, lo accetta sarcasticamente.
La carriera sportiva di Cantona è un bildungsroman pieno di cadute e risalite, di risse e di squalifiche, addirittura di abbandoni al professionismo e ripartenze dalla serie B inglese, fino all'epico finale all'Old Trafford, uno dei palcoscenici più eccitanti per un calciatore, in quella Manchester sempre pronta a celebrare i working class heroes, una città che lo ha eletto "the King" e amato addirittura più di George Best, sin da quando osò presentarsi con la scritta "Dieu" sulla maglietta, appena sopra quel mitologico numero 7.
Cantonà non si è mai fatto imbarazzare dal proprio carisma, lo ha cavalcato – non sfruttato – cosciente dell'impatto mediatico della sua esuberanza senza rimanerne schiacciato, geniale in campo quanto nei suoi sibillini attacchi ai tabloid sempre pronti a crocifiggerlo, idolo dei ragazzini che in mezza europa, nel mezzo degli anni '90, si alzavano il colletto prima di dare un calcio al pallone.