di Patrizia Poli
Gastone Biondi. Storia e segreti del ponce al rumme
Ermanno Volterrani
Debatte editore, 2012
Atmosfera calda in una giornata fredda, sabato 8 dicembre, al bar Civili. Lo scrittore Ermanno Volterrani - noto in ambiente livornese soprattutto per la sua rivalutazione del vernacolo in raccolte di poesie come “La mia amica triglia”, ma autore anche di testi in italiano, fra cui spicca il commosso racconto delle vicende vissute dal padre durante la guerra in Albania - ha presentato la sua ultima fatica, la biografia romanzata di Gastone Biondi.
Hanno collaborato alla stesura del testo la figlia di Gastone, Caterina, e Otello Chelli, figura di spicco della cultura e tradizione livornese che ha scritto la prefazione del libro.
Gastone Biondi era il proprietario della famosa fabbrica di liquori Vittori che produceva, e ancora produce – anche se adesso è stata rilevata dall’Arkaffè – il rum fantasia, lo speciale ingrediente per la preparazione del ponce al rum, anzi, al “rumme”, non confondiamo per carità!
Le origini della bevanda sono incerte, la leggenda vuole che nel seicento alcune balle di caffè, provenienti da una nave saracena deviata dai cavalieri di Santo Stefano, si confondessero con barili di rum. La mistura, invece di rovinare entrambi gli elementi, li esaltò. In realtà pare che l’ammiraglio Edward Vernon, della marina inglese, per evitare l’ubriachezza dei suoi uomini, ordinasse loro di annacquare il rum ed essi, per obbedire, lo bevessero col tè, creando la base per il grog. I livornesi sostituirono il tè col più reperibile ed economico caffè, mantenendo la tradizione “della vela”, la fettina di limone a cavallo del bicchiere, spesso utilizzata per igienizzarne il bordo ma poi, ahimè, lasciata cadere nella mistura, con l’idea che “quel che non ammazza ingrassa.”
Il ponce bollente va bevuto nel gottino, il bicchiere di vetro, tenendolo fra due dita per il fondo spesso, altrimenti ci si ustiona. Insomma, come ci spiega Ermanno, va preso per i fondelli.
Il nome deriva dall’inglese punch che, a sua volta, risale all’hindi pancha, cioè cinque, come cinque sono gli ingredienti della bevanda.
Il ponce, inglese come il rum e arabo come il caffè, era la bevanda prediletta prima della guerra, metafora stessa della livornesità, incrocio d’identità in questa città meticcia, fusione d’ingredienti apparentemente inconciliabili fra loro. Non c’era giorno che i livornesi non bevessero almeno una volta il ponce che è sempre stato parte della nostra tradizione.
Nelle cronache del settecento e dell’ottocento (ci spiega Otello Chelli) c’era una vera e propria corsa a creare il ponce migliore e i produttori vi mettevano dentro di tutto, dal caramello ai grani di pepe. I bar erano luoghi di aggregazione per il popolo, dove si discuteva e si familiarizzava ed anche salotti intellettuali. Vi passavano il tempo Francesco Domenico Guerrazzi e Angelica Palli, Fattori, Natali, Modigliani, soprattutto nel celeberrimo caffè Bardi.
Il ponce è citato nell’Artusi come degno accompagnamento del cacciucco, si dice che abbia fatto venire i lucciconi addirittura al rude Buffalo Bill, e il Carducci così ne scrive:
“Di nero ponce bevemmo e con saper profondo, non lasciammo giammai tazza o bicchiero senza vedere il fondo.”
Livorno era la città dei cento teatri, ma anche dei cento e ventitrè bar, siamo stati noi a costruire le prime macchine per il caffè, che, a quei tempi, erano torri di rame lucente “Nella sola Venezia”, ci dice Otello, “ai miei tempi si trovavano diciassette fiaschetterie e la bevanda d’elezione, dopo il vino Sammontana, era, ovviamente, il ponce, capace di stimolare quello spirito livornese, quel motto salace, quella battuta fulminea che oggi si sta perdendo e stemperando.”
In piazza Vittorio Emanuele c’era un bar, detto “Il Diacciaio” perché si trovava di fronte a un albergo freddissimo, che vendeva il ponce peciato, cioè annerito da un pizzico di pece. In piazza Cavallotti nessuno rinunciava alla mattutina “persiana” – acqua fredda, menta e anice - per smaltire le sbornie della sera precedente, poi, già alle dieci, per accompagnare un pezzo di schiacciata col prosciutto o la mortadella, niente di meglio che il primo ponce, per passare subito a quello digestivo del dopopranzo e agli immancabili ponci notturni .
Negli anni cinquanta, però, il ponce era decaduto ed è stato proprio Gastone Biondi a riportarlo ai fasti di un tempo.
È con la voce rotta dall’emozione che la figlia Caterina ci racconta come il libro sia nato per caso. Dieci anni dopo la morte del padre, ha riaperto due scatole, trovandovi dentro un mondo di ricordi che l’hanno riportata a quando, bambina, giocava nella fabbrica del babbo, assorbendo odori, assimilando voci, giocando con le vecchie fatture insieme alle amichette, finché quel gioco si è trasformato in passione e mestiere anche per lei che ha lavorato per tanto tempo gomito a gomito col padre.
Gastone Biondi è rimasto orfano a nove anni, ha studiato e lavorato fino a iscriversi all’università e trovare posto in banca. Ma l’incontro con la moglie, i cui parenti possedevano la fabbrica dei liquori, è stato fatale, perché fu amore in entrambi i casi, fino a fargli lasciare l’appetibile lavoro di bancario per occuparsi a tempo pieno della fabbrica, nata nel 1929 e che lui ha rilevato negli anni cinquanta, trasformandola in ditta Vittori di Biondi.
A Livorno, in quegli tempi, la concorrenza era tanta, c’erano venti distillerie e cominciavano a imporsi i liquori di marca, ma Gastone ha puntato sulla qualità, sugli ingredienti migliori per la produzione del suo rum fantasia. “Veniva”, racconta la figlia, “dal vecchio Gigi Civili con i campioncini del liquore per farlo testare.” Ne ha voluto ridefinire l’identità livornese anche tramite le etichette.
Otello Chelli ci racconta di aver conosciuto il Vittori quando, con la famiglia, dopo la deportazione, era “ospite” di una colonia adattata a campo profughi. Qui il giovane Otello trafficava con gli americani che chiedevano gin e lui lo comprava nella distilleria Vittori, riuscendo così a mantenere tutta la famiglia. Ha poi avuto molti contatti anche con Gastone Biondi.
Per concludere, riportiamo la poesia che Ermanno, l’autore del libro, ha recitato meritandosi il caloroso applauso della platea.
‘R ponce alla livornese, un lo sai fa’?
Un ti preoccupa’, t’insegno io!
Prendi ‘n bicchiere,
un po’ più grosso di velli da caffé,
basta ‘he c’abbi ‘r fondo bello doppio:
per un bruciassi ‘ diti,
‘r ponce, è risaputo,
va bevuto prendendolo dar fondo,
insomma…
va preso per ir culo.
Per benino scardi ‘r bicchiere ‘or vapore,
un cucchiaino di zucchero… abbondante,
‘na scorza di limone fa da vela
e rumme, Fantasia, nun ti sbaglia’,
‘r Bacardi e ‘r Pampero un vanno bene!
Ci vole la bevanda der Vittori,
l’intruglio ‘he ‘r ragionier Gastone ‘r Biondi
ha ‘nventato un fottio di tempo fa.
Dunque, torniamo a bomba:
di novo scardi ‘r rumme finché bolle
e ner finale,
riempi ‘r bicchierino di ‘affé,
di vello forte a bestia!
Se poi pensi ‘he t’aggradi,
l’ingredienti poi adatta’ ar gusto personale,
mischiando sassolino o cognacche Tre Stelle
e ‘r resurtato ‘ambia po’o o nulla:
a garganella l’aromati’o ponce
ir gargarozzo ti solleti’erà.
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