Poeta, prosatore, drammaturgo, autore di testi di canzoni, traduttore, diplomatico. E’ uno dei maggiori poeti polacchi viventi. Nel suo sito internet si presenta così: Vive a Varsavia con la moglie e due figlie, con il suo labrador “Guinness” e il gatto da tetto-irlandese. Lo conobbi trent’anni fa nella sua villetta di Varsavia. Ricordo che mi impressionai alla vista del suo enorme cane – un vero colosso e, anziché la solita scritta “attenti al cane” lessi “cane buono”. Ancora adesso egli usa questo appellativo. Siamo quasi coetanei, io sono più giovane solo di un anno. E’ nato a Varsavia il 1 marzo 1935. Nel 1957 si è laureato in filologia polacca presso l’Università di Varsavia. Come poeta ha debuttato nel 1958 con la raccolta Wigilie wariata (Le vigilie di un pazzo). Co-redattore di molte riviste letterarie, ha lavorato nel cinema come direttore artistico e con la TV come autore di sceneggiature per serial di successo. Dopo il 1980 – impegnato nella vita culturale indipendente. Direttore dell’Istituto di Cultura polacca a Londra (1971-74), ambasciatore della Repubblica Polacca in Irlanda (1991-96). Ha ricevuti numerosi prestigiosi premi, tra cui nel 2006, in occasione del venticinquesimo anniversario del “Settimanale Solidarność”, la Croce di Commendatore delle Rinascita Polacca e nel 2009 il premio della Città di Varsavia.
Scrive Jarosław Fezan nel “Dizionario degli Scrittori Polacchi” (Wydawnictwo Zielona Sowa, Cracovia, 2004): “La creazione di Bryll, radicata nella tradizione barocca e plebea, appartiene alla corrente demistificatrice, polemica nei confronti della visione romantica della storia polacca e dell’identità nazionale. Negli anni ottanta appaiono in essa accenti metafisici e patriottici”. Ha pubblicato più di 30 raccolte di poesie, più di 20 drammi (inclusi oratori e musical) ed è autore di numerosi testi di canzoni di successo. Ha tradotto poesie irlandesi e ceche.
Poesie di Ernest Bryll tradotte da Paolo Statuti
Ballata degli alberi
E benché tagliati con le seghe
E benché allineati tra loro
Nessuno dirà
- Non si possono uccidere gli alberi –
Ecco di nuovo sono con noi
Nella buia città
Sgabelli dalle gambe cervine
Tavole di armadi mugghianti di vento
Credenze di spessi pini
Credenze che sono come bisonti
Rinchiusi fra terribili pareti
Nessuno dirà
- Non si possono bruciare gli alberi –
Nuovi boschi sorgeranno nei forni
Fulmini di abeti nel temporale
Muscolosi olmi
Nessuno dirà
- Amate il pavimento –
Ma imbiancano di ranno
I pavimenti – i soli delle nostre dimore
Ecco di nuovo sono con noi
Torturati dai taglialegna
Di straziati con le seghe è il tavolo
Ma stringetevi alla tavola la sera
- Già battono le ali i rami che volano in cielo
I tarli bussano come se tu recitassi una piccola “ave”…
1960
La barba
…E fa’ che gli assassini si ritengano più giusti
del supremo areopago. In primo luogo
inducili a indossare barbe finte. Tra i ricci arruffati
che danno ai ceffi la dignità di Giove
gli ordini scorrono più lenti – incerti, filtrati
sugli alabastri dei baffi. Nell’Olimpo non è permesso
scoprire i canini.
Che loro stessi
coltivino in futuro quell’albero insigne
che l’albero dia buoni frutti, che innestino
qualità sempre nuove. – Coinvolti
in un rituale addensantesi, coperti di foglie
ornati di fiori già perdono la forza
della semplicità, la forza con cui da sotto l’unghie
si scava coi denti il sangue raggrumato.
Già mentono
e timorosi mentono. Cancellano le tracce
dei delitti che li hanno generati. Già son divelti
privati del principio. Adesso a mo’ di coltellata
conficca loro nella schiena un’ala d’angelo.
Intorpiditi
dalla linea del trono, nella morsa delle corone
non si avvedranno ormai di quel ridicolo piumaggio; poi
gli abiti sempre più pesanti, le pieghe di marmo…
Finché frullando come aquile e seminando fulmini
Inciamperanno nella barba mancando l’astuto bersaglio.
1962
Turismo
In ogni nostra famiglia c’è almeno un fucilato.
Chi presso il tronco d’una forca, chi trova palpando
come un cieco ciò che in nessuna guida è scritto…
- Un turismo sgraziato. Invece del Colosseo
un pezzo di ciotola, un’asse bruciacchiata,
una chiazza sul muro.
Ci vorrebbero dei fondi,
copertine a colori, pellicole spiritose,
per stimolare quello che striscia a fatica
tra le secche dei verbali. O un esperto fiorentino
- lascia che insaporisca questo coscio crudo,
che inventi una sbobba in cui la puzza di rapa
e la cenere sian gradite.
Perché dovremmo vergognarci
- se sarà gustoso, se stuzzicherà l’appetito
di tutti quelli che verranno qui per compatirci,
per rappezzare poi le nostre quattro zolle
sulla pancia dell’Europa…
Continuamente restiamo
nell’atrio dei supplementi, nell’immondizia,
ove sono sparsi i teschi ormai così sforacchiati
- inadatti alle riflessioni dei principi danesi…
1966
Mtatsminda
Proprio là – bevendo vino – ho veduto
morir la patria:
La perfezione
inacidirà nel più banale
nel più aggrinzito nel più provinciale
tanto da non reggere al gran ciclone
che sulla terra sprizza…
Chissà dove in etnografia
vivremo, e nei dizionari solinga
seccheran la foglia della mia lingua
- Qualche esperto riuscirà tuttavia
a riscavare poi fuori dal gruppo
- A raschiare il sangue con l’unghia colta –
quasi spento il polso
Forse toglierà un pidocchio
- Uno di quelli ch’hanno invaso la Sacra Volta
E questo sarà tutto…
Tbilisi, Caucaso, 1969
* * *
L’essermi celato a lungo negli arbusti dell’ironia
E’ in me una fenditura, un’ulcera non guarita
L’essere stato come un centauro – metà uomo metà animale
Mi vieta di credere in ciò che in me è umano
Emergo dalla macchia e le tenebre abbandono
E ho paura del cielo su di me spalancato
E torno e di nuovo sporgo la mia testa di uomo
E fuggo mentre il sole cuoce il mio riccio deretano. (1981)
C’è?
C’è un traduttore della lingua dei vivi in quella dei morti
E dei morti in quella dei vivi – quando vogliono il disprezzo
O l’amore trasmettere, o un avvertimento?
C’è. Ma cambia
Sempre nuove traduzioni
Nuovi chiarimenti e nuovi accordi
Perché si accordano i vivi con i morti
- Come sarebbe più facile se si logorassero
Un po’, non del tutto, le parole troppo in profondo
Incise sulle tombe. Ci sarebbe una quiete più gradita
Se si cancellassero un po’, sì, si offuscassero un po’
- Perché ormai mancano le forze sono morti. Ci mancano le forze
Dobbiamo impiegare più miti traduttori
Esperti di significati. Allora si vedrà
Se in modo liscio si compone il perdurare dei morti
Con le chiacchiere quotidiane
Preghiamo – Accorri
Angelo della Morte. Sii anche Angelo
Della Vita comune. Siedi a tavola con noi
Anche qui è come al cimitero. Ascolta i fatti
Oscuri, di ogni giorno. Poi li trasmetterai
Nelle parole eterne adesso inefficaci
Per i nostri sogni e desideri
Ma ora mangia. Bevici sopra
Perché da noi se ci bevi sopra la lingua si snoda
Ma cosa abbiamo bevuto?
Meglio neanche pensarci
Perché ti chiudi la porta alle spalle…
Perché ti chiudi la porta alle spalle
Così in fretta affinché nessuno faccia in tempo
Ad entrare in casa con te
Eppure dietro la finestra
Un angelo volteggia
Ascolta davvero è il Tuo Angelo
Dunque perché deve aspettare sotto la pioggia
Egli dal cielo è mandato proprio
Per vegliare fedelmente sull’uomo
Tale è su di lui la legge divina
Che vivere senza di te non può
Batte sui vetri con le ali
Fallo entrare – che viva con noi
Perché ti chiudi la porta alle spalle
Hai paura delle correnti d’aria?
Che il vento rimbombi come musica
E ci tiri fino in cielo
Parlano sempre di Icari…
Parlano sempre di Icari – benché è Dedalo che arrivò,
come se le tenui penne perse dall’ala
la magra gamba del fanciullo rivolta al cielo
- volesse dire tutto. Come se per difesa
ci avessero dato il coraggio di uno sciame di falene
che sfrigola intorno a una lampada…
- Se
conosciuta la morbidezza della cera sappiamo raggiungere
le rive prescelte – ci evitano nel canto.
Così come evitano l’uomo o si meravigliano
che non guardi gli Icari…
Breughel, che è incanutito
a capire la gente, i loro occhi ha distolto
dagli altissimi drammi. Sapeva che non dobbiamo
incantarci con gli Icari, nè rattristarci per la caduta
- sia pure la più alta…
- Ma afferrare ciò che è nostro.
- Dedalo, per salvare Icaro, è tornato?
Ballata del prato
Tutta la notte con una ragazza andavo come su un prato
Ed eravamo così reciproci
Che intorno si fece più quieto, più soffice, più scuro
Come se fossimo stretti in un boccio
A un tratto lei gridò con tutto il caldo corpo
Batté come un uccello le ali
La notte aprì i suoi petali su di noi
La ragazza volò via – e io dietro a lei
Adesso giaciamo un po’ ansimanti
Ma già pensando a un nuovo volo
La notte ci pulsa sommessa sotto la schiena
Con l’odore del sudore, dell’erba, della smielatura…
Ci dividono
Ci dividono, aggiungono, riducono alla radice perfino
A volte elevano a potenza. Credono
Che loro stessi siano potenza. Usano agili
Macchine del fare. L’antico pallottoliere
Dove anche lì bisogna toccare, spostare
Disporre, togliere, trasferire i popoli
Da una fame all’altra? ha già terribilmente nauseato
Adesso negli uffici non sentirai il ticchettio
Delle macchine che scrivono ordini segreti
C’è silenzio? E prima come se un mitra
Sparasse a raffiche. Subito
Lasciava una traccia, banali errori di lettere
Come rozze tombe
Sono arrivati i computer
Prendono la colpa su se stessi
Le loro sincere deposizioni
Dal più rigido disco della memoria
Chi decifrerà
Come?
A piacimento…
2009
(C) by Paolo Statuti