Ho conosciuto in te le meraviglie
meraviglie d’amore sì scoperte
che parevano a me delle conchiglie
ove odoravo il mare e le deserte
spiagge corrive e lì dentro l’amore
mi son persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore
che (ben sapevo) amava una chimera.
Analizzando questa poesia mi sono accostata alla tematica meriniana, per consuetudine ascritta prevalentemente al percorso manicomiacale-religioso, da una mia prospettiva. Questo breve testo, costituito da otto versi endecasillabi divisi in due quartine senza cesura con rime A-B, A-B, C-D,C-D, ancorché inserito in una raccolta di poesie d’amore dedicate, include una disposizione di segno più ampio, aperto a ben più di un significato. La purezza del verso, la scelta semantica e l’andamento lirico della composizione rimandano ad una misura d’amore che trascende la mera sensualità. Qui le “meraviglie d’amore” non sono solo lo stupore per il sentimento ma accolgono implicazioni di valore spirituale giacché si collegano agli elementi della natura e suscitano una gioiosa esaltazione che viene accompagnata dal tumulto dell’anima. Non si tratta dunque della “meraviglia” come sorpresa dell’incontro con l’altro ma delle “meraviglie” intese come prodigio d’amore aurorale dentro il quale perdersi (… e lì/dentro l’amore/mi son persa come alla bufera). In questo senso mi sentirei di assegnare al testo una valenza metafisica, un’eco mistica. Erotismo e misticismo sono d’altra parte due coordinate essenziali nella poetica di Alda Merini. Ma il sentimento erotico che investe grande parte della sua opera contiene in sé dei limiti, non rende felicità, è intriso di nostalgia, di rimpianto, è una ricerca continua che non placa il bisogno di donarsi.
E’ tanto misterico quanto è misteriosa la scaturigine della parola poetica meriniana, vibrante, sferzante, aspra e dolcissima, stillata da una predisposizione naturale, quasi inconsapevole. Mistero è l’inquietudine dell’anima in bilico fra lucidità e follia, mistero l’esasperato inseguimento dell’eros e il contrappunto di un misticismo al limite dell’estasi, mistero infine l’approdo alla fede, l’incontro con la Croce e la rivelazione del messaggio cristiano comunicato attraverso la visione dell’attesa come meraviglia.
La prima giovinezza di Alda Merini è segnata dall’incontro con poeti e critici già affermati nel campo della cultura nazionale, uomini molto più grandi di lei, dai quali impara quello che gli studi incompiuti le hanno negato. “(…) sedevo gomito a gomito coi grandi della poesia, con la classe del rinnovamento letterario. Io ero troppo piccola per capire cosa facessero quei grandi uomini. Erba, Pasolini, Turoldo, Manganelli.” E da qualcuno di questi grandi, grandi anche anagraficamente, viene attratta e coinvolta sentimentalmente. E’ facile immaginare quanto in questo pesi la figura del padre dal quale la giovane si è sempre sentita compresa. Racconta: “Mio padre aveva capito il mio destino di monaca e l’aveva aiutato. Mia madre lo aveva combattuto (…) e così mi obbligò a sposarmi. (…) Mio padre si oppose, ma lei fu molto decisa e disse giustamente che la vita in famiglia di una madre è molto più meritevole ed onerosa di quella dei Santi e non c’è grazia che possa illuminare una madre se non quella che viene direttamente da Dio.” La Merini nutre ammirazione per questa madre dalla rigida volontà e dalla notevole bellezza ma al contempo prova gelosia per il rapporto di forte complicità che avverte fra i genitori e fra i due sceglie il padre dal quale riceve insegnamenti e al quale chiede approvazione. Figura di riferimento, dunque, quella paterna, inseguita nelle tante presenze maschili e ritrovata come Padre Eterno alla fine del suo percorso.
La poetica dell’Eros è in Merini un dolore che nasce da radici profonde, percorre la sua vita e la sua scrittura e in fondo si riduce ad una privazione sofferta, ad un bisogno di elevare lo spirito verso qualcosa di ideale e di trascendente. Alla fine è una condizione di solitudine e di vuoto che si riconduce alla necessità di farsi “abitare” da un’Assenza mistica. “Basta un sorriso o un’assenza e/ la mia mente concepisce un amore”. Tutto l’arco dell’esistenza di Merini è percorso da una tensione erotizzante che la conduce verso esperienze amorose che la poesia esalta o maledice ma sempre sublima attraverso la parola affabulante, fascinosa, temeraria nella sua sostanza per i tratti del vissuto che “osa” raccontare e audace nella sua forma per il privilegio di poter coniugare costruzione lirica e libertà versificante. Eppure il turbamento sensuale la prova, considera una condanna la sua appartenenza al sesso femminile al punto di stabilire quasi una relazione fra la follia e l’essere donna: “L’uomo che vuole imporre la sua diversità con la violenza fa pensare che nascere donna sia quasi un invito al delitto. (…) E ancora: “Il marchio manicomiacale della donna sono proprio i suoi genitali. Ogni donna è stata nel proprio manicomio. Ogni donna, benché si coprisse, ha dovuto sottostare alle voglie del maschio dopo la battaglia. (…) La donna viene umiliata ogni volta che ride ed è felice di se stessa.” Questa sorta di abiura ha radici lontane, nel tempo in cui la giovanissima Alda si scopre gelosa del rapporto fra i suoi genitori. Scriverà infatti: “Il più grande dualismo della mia vita furono mio padre e mia madre. Io un figlio che stava nel mezzo, con un sesso che non mi piaceva.” La complicità con il padre, considerato “il primo maestro”, è pari all’ostilità nei confronti della madre, ritenuta collerica e autoritaria. Scriverà in seguito a proposito della figura materna: “Sono anni che ti penso, e sebbene tutti dicano che sono impazzita per amore, sbagliano. Io sono impazzita per te. Sei stata la donna che ho odiato di più nella vita, perché eri bella, stupenda, regale…”
Nella prima raccolta di poesie, La presenza di Orfeo, inizia a prefigurarsi la dualità presenza-assenza (si vedano i versi: “Orfeo novello amico dell’assenza”) e a delinearsi la percezione del corpo come limite e dell’amore come destino di abbandono; mentre in Paura di Dio si annuncia la tensione che ascende alla preghiera e si manifesta la concezione della passione amorosa come Vetta e Abisso. (“Padre, se questa ascesa/ è simile all’abisso e colorata,/ prosperosa ogni vena di ricordo,/ dammi morte ossequiosa/ dei miei ciechi travagli/ e una pura deriva/ a cui possa ancorare ogni divieto”). Qui Dio è ancora presenza indefinita, duplice entità che ha volto luminoso per chi non conosce travaglio ed occhi foschi per le anime inquiete che si scontrano con “l’ombra nemica” brancolando nel buio. Tutta la raccolta vibra di stanchezza interiore, nasce il dolore, “parto ultimo e solo”, per essere inghiottito dal respiro perfetto della morte (Pax). La preghiera è urgenza, solo Dio può porre fine al tormento scatenato dai turbamenti d’amore “perché è a Te che io tendo dalla vita/ prima che conoscessi questi inferni.”
Amore-amori-amanti: cosa cerca Alda se non l’Amato, lo Sposo primo ed ultimo? E’ una lunga ricerca durante la quale si mettono in uso tutte le armi, è una corsa dentro la quale sta la paura e la follia, è un percorso di attesa e nostalgia, di accensioni e spegnimenti, di forza e di delusione. “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato /l’amato del mio cuore;/ l’ho cercato ma non l’ho trovato.” Dichiara la sposa del Cantico dei Cantici. E così Alda che non si stanca di percorrere sentieri bui, di bruciare di passione per ogni incontro, e ogni amore è per lei un’Annunciazione, anche quando il tempo ha accumulato anni e segni sul suo corpo e sulla sua anima. Cambia l’apparato simbolico, resta l’attesa, la ricerca di un unico volto che ha assunto vari nomi o, cambiando i termini, di un solo nome che si è rivestito di tanti corpi.
Le duplici nozze, gli amanti goduti e quelli solo desiderati, le fantasie erotiche avvolte in dense metafore o espresse con linguaggio esplicito, tutto si riconduce al bisogno di abitare il vuoto, di popolare il deserto dentro cui l’anima vaga anelando il congiungimento che le renda un’identità unica. Già Pasolini, recensendo La presenza di Orfeo, parlava della “ragazzetta milanese” come di una personalità “dall’inquietudine nervosa e dai sensi infelici (…) che vive uno stato di informità” e continuava “(…) soltanto la mancanza del senso d’identità configura nella Merini un dato mistico.” L’aspetto peculiare della poetica meriniana si costituisce in una sorta di associazione ossimorica di erotismo e di misticismo, di cristianità e di paganesimo, in un linguaggio che può apparire irriverente ma che sboccia da una “splendida frase musicale piovuta dalle mani di Dio”, come lei stessa dice. E’ la luce mistica della sofferenza che accompagna il cammino della poetessa nella ricerca di una identità d’amore. “Mettimi come sigillo sul tuo cuore/ come sigillo sul tuo braccio/ perché forte come la morte è l’amore/tenace come gli inferi la passione”, prega la Sposa del Cantico. E Merini: “Ah, se t’amo, lo grido ad ogni vento/gemmando fiori da ogni stanco ramo/ e fiorita son tutta e d’ogni velo/ vo’ scerpando il mio lutto” (Genesi). Nella ricchezza dell’amore, genesi che cancella il lutto per ciò che è andato perduto o che mai si è trovato, si riflette quella sorta di misticismo umano che pervade l’eros quando è totale e felice, quando è dono di sé all’altro, quando è fecondo di intenti nei quali riconoscersi. Trovare l’Amato e perderlo e non stancarsi di ricominciare a cercare, perché la ferita della sua assenza è inguaribile e la nostalgia più grande del desiderio di arrendersi. La parola meriniana, corporea e fremente, racconta l’autentica essenza a cui appartiene primariamente la natura del poeta: materia di sensazioni che l’intelletto traduce in realtà metaforica, rivelazione misterica e testimonianza di vita. La donna Alda Merini cerca in ogni amante le tracce assolute dell’Amato, la parte “divina” che vive in ogni uomo, e in questa ricerca esperisce l’avventura nascita- morte- rinascita, sia attraverso la propria vicenda umana sia con il parto della parola creativa. “Quando tu non vieni/le acque del parto/si diffondono in terra/ e cade un pensiero meraviglioso/che tu vedi/ ed è la fine del mondo nel cuore di una donna/ (…) ma quando tu non vieni/ le acque del parto si colorano d’olio/ e io vorrei uccidere mia madre.” (Clinica dell’abbandono). Versi in antitesi, dove l’incipit è metafora di creazione gioiosa e la chiusa è tenebra di morte, desiderio di cancellare la nascita. Il corpo, nella sua gloria e nella sua miseria, è la chiave che può condurre l’anima ad aprirsi all’enigmatica dimensione dell’Invisibile.
“Il suo sperma bevuto dalle mie labbra/era la comunione con la terra./Bevevo la mia magnifica/esultanza/guardando i suoi occhi neri/che fuggivano come gazzelle.” Versi audaci per la carica transustanziale che traghetta l’assalto dei sensi verso l’esaltante convinzione di appartenere ad una dimensione panteistica. La “comunione con la terra” è l’anticipo dell’Incontro Ultimo a cui Merini affiderà il tratto finale della sua avventura umana, condotta come un estenuante duello fra la vita e la sofferenza. Il dolore è stato nella sua carne e nella sua anima, urlo e silenzio, è stato la terra orfica dalla quale tutto ha inizio e nella quale tutto si conclude. “Si sfaldano le rose della mia avvenenza/piano piano in un terreno consunto./Non solo petali che ardono di luce/ma solitarie piante/di chi è stato a lungo dimenticato…” Merini vive una libertà di linguaggio che si apparenta alla lingua della contemporaneità, un linguaggio che pur restando radicato nella tradizione del secondo Novecento letterario parla alla modernità e forse proprio per questo la sua poesia, contrariamente a quanto succede alla poesia in genere, è amata anche dai giovani, soprattutto dalla parte femminile. La sua parola poetica è terra scavata e dissodata dove il seme della sofferenza fa germogliare la speranza.
Anna Maria Bonfiglio