8 LUGLIO – La scrittura è un bisogno da sempre insito nell’uomo. C’è chi scrive alla ricerca delle più anguste e profonde parti del proprio inconscio, come direbbe il poeta Giorgio Caproni “ lo scrittore è come un minatore che dalla superficie, cioè dall’autobiografia, scava, scava e scava finché trova un fondo nel proprio io che è comune a tutti gli uomini”. C’è chi scrive per pura passione o per il desiderio di farsi portatore di un messaggio universalmente compreso. C’è, infine, chi scrive per momentanea o travolgente ispirazione, molte volte elaborazione in forma d’arte di una particolare esperienza di vita.
Ma quale sia veramente il pungolo che spinge e ha spinto l’uomo a munirsi di carta e penna, lo abbiamo chiesto a uno dei maggiori scrittori contemporanei.
Erri De Luca è poeta, traduttore e scrittore. Collabora con diversi giornali (La Repubblica, Il Corriere della Sera, Avvenire, Il Manifesto, Gli Altri) ed è sopratutto autore di numerose opere di narrativa. Ricordiamo tra i libri più recenti “Il peso della farfalla”, “ E disse”, “I pesci non chiudono gli occhi” e per ultimo“Il torto del soldato”, edito da Feltrinelli, collana I narratori. Da sottolineare le passioni che più lo contraddistinguono: l’alpinismo e lo studio da autodidatta di lingue come l’yiddish e l’ebraico antico, grazie alle quali traduce alcuni testi della Bibbia.
Che definizione darebbe al termine “creatività”?
Creatività è un feticcio moderno, applicato alla pubblicità è al servizio delle vendite. Creare spetta al creatore, il suo verbo “creo ” si affaccia come seconda parola della scrittura sacra, dopo “In principio”. Il verbo è fuori della portata umana. Noi apparteniamo all’opera della trasformazione. Trasformo la vita in forma narrativa, come altri trasformano il ferro, il legno, la materia prima, in qualche utensile. Escludo dal mio uso del vocabolario la parola creatività, piccola presunzione di artefici secondi.
Quando e come ha capito che la sua strada sarebbe stata la scrittura?
Mi sono tenuto la migliore compagnia con i libri da quando ero marmocchio e crescevo in una stanzetta gremita di scaffali e libri di mio padre. Crescevo ospite di quella tappezzeria che arrivava al soffitto. Così la scrittura è stata un desiderio di aggiungere il mio contributo all’ enorme stesura di pagine intorno. Ma scrittura non è strada, è divagazione, distanza, vagabondaggio festivo in margine a una giornata asservita a un salario.
Nei suoi libri c’è sempre una parte di lei e del suo vissuto. Ne “I pesci non chiudono gli occhi” racconta quell’intricato momento di passaggio tra l’infanzia e una percezione più consapevole della realtà circostante. Passaggio che il più delle volte segna un conflitto tra una mente che cresce e un corpo ancora racchiuso nel guscio. Spesso la creatività viene intesa soltanto come capacità di creare scenari e personaggi improbabili, oppure come risultato di drammi interiori o di momenti di spiccata follia. Ma forse, come lei ha più volte proposto, la più grande “innovazione”creativa non è riconoscere che la vita, quella vera, è il più grande romanzo che uno possa raccontare?
Sono un narratore a trazione limitata, posso scrivere solo storie mie,accadute a me e nei miei stretti paraggi di conoscenza diretta. Perciò sono storie con un io narrante che muove dall’interno delle storia. Non possiedo la terza persona, usata dallo scrittore che si fa regista e direttore d’orchestra della sua partitura. Non ho scritto io la vita che racconto, la ho ricevuta e sono un suo redattore.
Lei è noto, oltre che come grande scrittore, come appassionato alpinista e cultore degli aspetti più sublimi dell’alta montagna. Quanto ha inciso questa passione nel suo percorso da scrittore?
L’alpinismo è un bel rischio festivo all’aria aperta. Come operaio ho conosciuto invece il rischio feriale, obbligatorio, della giornata di forza lavoro venduta a rischio di ferite, invalidità, morte. Ho visto un mio compagno di cantiere saltare per aria bruciato da un cavo di corrente dell’alta tensione. Invece andare su per monti è darsi all’aria aperta, che non incontra ostacoli all’infuori delle conifere e delle rocce. L’alpinismo è un gioco più o meno leale con le forze sovrastanti di natura, riconoscendo la minima taglia di ognuno di fronte all’immenso. Non ha relazione per me con la scrittura.
Nel libro “Sulla traccia di Nives” scrive: “I nostri antenati sono andati a caccia di immenso. Così ingrandivano la vita. Perciò l’astronomia è stata la prima scienza delle civiltà. (…) Sbirciare l’infinito fa aumentare lo spazio, il respiro, la testa, di chi lo sta ad osservare. A forza di stupore la scienza progredì. Provare meraviglia è un requisito scientifico, perché istiga a scoprire”. Gli antichi dicevano che anche la filosofia nasce dalla meraviglia verso l’infinito e dalla ricerca del principio che regge il cosmo. Allo stesso modo la letteratura da dove potrebbe trarre origine se non da un’attrazione e una curiosità che ha colpito prima i nostri occhi?
Ho capito la filosofia finché ho letto i pensatori prima di Socrate, che volevano spiegarsi la macchina dell’universo con ipotesi, geometrie, astronomie. Eratostene riesce a calcolare il diametro terrestre calcolando l’angolo di una pertica in un pozzo in un giorno di solstizio d’estate. Ho ammirato la loro curiosità febbrile. Mi sono disinteressato della filosofia da Socrate in poi, da quando mette la figura umana al centro della speculazione. Non sono interessato alle perlustrazioni di me stesso, inerte all’appello del “Conosci te stesso”. Mi meraviglia il raponzolo di roccia che cresce in un’unghia di terriccio su una parete a picco, non la mia psiche, figurina di un album greco della mitologia. La letteratura viene dal bisogno di trasmettersi esperienza da una generazione all’altra e è stata per millenni magnificamente orale.
Linda Tonarini