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Pur di fare il mio dovere da cittadino e leggere i resoconti del match parlamentare sul nuovo Senato le ho provate tutte. Mi sono legato allo sgabello del computer come Vittorio Alfieri, mi sono imbottito di Prozac come un giovane scrittore americano della beat generation, ho commissionato al KGB un complesso sistema di cavi elettrici che trasmette una violenta scossa ogni qual volta mi cadeva la palpebra. Niente, niente da fare.
Alla prima riga pensavo già al prossimo turno di campionato di calcio, alla seconda canticchiavo una canzone di Renga tamburellando con le dita sulla tastiera, alla terza avvertivo un diffuso senso di assopimento, alla quarta mi apprestavo ad entrare nella fase Rem.
Non è neppure noia, a questo punto. È riluttanza alla stato brado: dopo un biennio di insulti, emendamenti, dossier, morsi agli orecchi tra deputati (o supposti tali), ho sviluppato anticorpi implacabili. Le sole parole “Senato” o “Riforme”, bastano a scatenare una reazione di autodifesa che mi porta in pochi secondi ad un sonno profondo.
Nel dormiveglia, filtrano incubi di quella Cambogia parlamentare che costituisce il piatto forte della cronaca politica nazionale.
Tre immagini spettrali su tutte: il protagonismo pigolante della Boschi, l'esegesi a mezzo stampa di qualsiasi frescaccia esca dalla bocca di Calderoli (si è incazzato perché non gli hanno lasciato esporre tre miliardi di emendamenti: ho letto bene o mi sono addormentato prima?) e l'inspiegabile, inquietante silenzio della coppia Scilipoti-Razzi...
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