Escursione archeologica: Pozzo Santa Cristina, Nuraghe Palmavera, Altare Monte d'Accoddi, Necropoli Anghelo Ruju

Creato il 17 marzo 2014 da Pierluigimontalbano
Escursione archeologica: Pozzo Santa Cristina, Nuraghe Palmavera, Altare Monte d'Accoddi, Necropoli Anghelo Ruju

Si è svolta lo scorso week-end una gita dedicata a 4 importanti siti archeologici sardi, organizzata da ETSI, Ente Turistico Sociale Isolano, con la collaborazione di Pierluigi Montalbano. Gli 85 partecipanti hanno soggiornato al centro di Alghero, presso l'Hotel Catalunya, e gustato le prelibatezze di tre ristoranti, quello all'interno del santuario nuragico del pozzo di Santa Cristina, nell'albergo ad Alghero e all'agriturismo Barbagia, nei pressi delle domus de Janas Anghelo Ruju.
Ecco una descrizione dei siti visitati:

Santa Cristina
Il santuario nuragico di Santa Cristina è situato nel comune di Paulilatino, nei pressi della chiesa campestre di Santa Cristina, da cui prende il nome. Il sito si compone di due parti: la prima costituita dal tempio a pozzo risalente all'età nuragica, con strutture annesse: capanna delle riunioni, recinto e altre capanne più piccole. La seconda parte del complesso si trova a circa duecento metri a sud-ovest ed è costituita da un nuraghe monotorre, da alcune capanne in pietra di forma allungata e un villaggio nuragico, ancora da scavare, di cui sono visibili solo alcuni elementi affioranti. Il pozzo sacro fu costruito attorno all’XI a.C. ed è racchiuso da un tèmenos, recinto di forma ellittica che separa l’area sacra da quella profana, e circonda un altro recinto a forma di serratura all'interno del quale è situato il pozzo stesso. La struttura è simile a quella degli altri pozzi sacri che si trovano in Sardegna, ma si distingue per la perfetta scolpitura di ogni singola pietra che lo compone.
Il pozzo è preceduto da un atrio nel quale si svolgevano cerimonie di culto. La scala si apre in un vano trapezoidale, con una gradinata di 25 gradini che si restringe verso il basso. La scala è raccordata specularmente agli architravi di copertura, formati da blocchi tutti uguali tra loro che creano uno straordinario effetto a scala rovesciata di larghezza costante.
Il pozzo sacro è formato da una cella circolare larga circa 2,5 m coperta da una tholos a volta ogivale alta quasi 7 m, realizzata con blocchi di basalto lavorati e disposti in filari. L'intera struttura del pozzo sacro presenta blocchi di basalto di media grandezza (circa 60 cm di lunghezza per 30 cm di spessore) rifiniti e disposti in file orizzontali avendo cura che il blocco inferiore sporgesse di circa un centimetro rispetto al blocco superiore al fine di creare un effetto architettonico molto efficace. L'ottimo stato di conservazione della struttura conferisce al pozzo una grande importanza archeologica e storica. Ancora oggi l'acqua scaturisce nel pozzo grazie ad una falda perenne che le consente di riempire la vasca circolare scavata nella roccia base e raggiungere il primo gradino della scala. Il livello dell’acqua è costante, forse grazie a un canale di scarico che, tuttavia, non è stato trovato.
La prima menzione del monumento è di Giovanni Spano, padre dell'archeologia sarda, nel 1857. Nel 1860 il Lamarmora nel suo Itineraire in collaborazione con lo stesso Spano elogia il monumento e lo paragona «al famoso sotterraneo, detto il Tesoro di Atreo, a Micene, nella Grecia, descritto e figurato da Giacomo Stuart». Antonio Taramelli, archeologo della prima metà del Novecento, ne intuisce la funzione e insieme a Raffaele Pettazzoni descrive il culto delle acque facendo riferimento anche a confronti esterni all'isola.
Le più recenti campagne di scavo sono state condotte da Bernardini nel 1989-90 e da Arnold Lebeuf[14] tra il 2005 ed il 2010. Nella struttura sacra e nelle sue vicinanze si svolgevano probabilmente culti riguardanti le acque, che riunivano l'intera comunità e forse devoti che venivano anche da fuori dell'isola: ne sono testimonianza le quattro statuette di bronzo, una raffigurante una figura femminile seduta, ritrovati insieme a figurine e altri oggetti votivi di produzione nuragica. Testimonia il permanere del culto nel tempo il ritrovamento di gioielli in oro fenici di molto posteriori all'età nuragica.
Secondo alcune teorie il santuario di Santa Cristina potrebbe essere stato anche un luogo di osservazione e analisi astronomica; infatti in un particolare momento dell'anno, la Luna si riflette sul fondo del pozzo, illuminandolo. Alcuni archeologi hanno obiettato a tale ipotesi affermando che in origine la tholos fosse chiusa (non permettendo quindi l'ingresso della luce lunare). Nelle vicinanze del pozzo sacro si trovano resti di varie costruzioni attribuibili alla civiltà nuragica. In particolare una ampia capanna circolare del diametro di circa 10 metri con un pavimento costituito da ciottoli, al cui interno si trova un sedile (alto circa 30 cm e profondo 50) che corre lungo tutta la parete. Nella stessa zona si trovano i resti di dieci capanne di forma circolare e quadrangolare poste a schiera. Tale disposizione, riscontrata anche in atri santuari nuragici (Santa Vittoria di Serri) fa propendere per una destinazione commerciale di supporto al quella devozionale.
A circa 200 metri di distanza dal pozzo sacro in direzione sud ovest, oltre la chiesetta di Santa Cristina, è situato un nuraghe monotorre di cui restano ben conservati i resti del primo piano con la tholos e la scala di acceso al piano superiore integre. Fu eretto anteriormente alla costruzione del pozzo sacro, testimoniando una frequentazione del sito precedente. Ben visibili in superficie nel bosco di olivastri si trovano tre capanne dalla forma allungata. Sono costruzioni sicuramente successive all'età nuragica, tra le poche presenti in Sardegna e se ne conosce l'uso come ricovero per il bestiame. Una di esse è ancora intatta e presente una lunghezza di quasi 14 m, la copertura è a lastre di pietra con mura massicce poste a formare una sezione trasversale trapezoidale. Completano l'area i resti di un villaggio nuragico ancora da scavare costituito da capanne di forma circolare. Nei dintorni sono sparse varie tombe dei giganti e qualche nuraghe.

Monte d’Accoddi
L’altare di Monte d'Accoddi è un sito archeologico risalente al Neolitico finale considerato unico non solo in Europa ma nell'intero bacino del Mediterraneo, accomunato morfologicamente alle ziqqurat mesopotamiche. Si trova nella Nurra, regione della Sardegna nord-occidentale in prossimità di Sassari, in un terreno appartenuto alla famiglia Segni. Nel territorio registra una rilevante presenza di monumenti preistorici come le necropoli di Su Crucifissu Mannu, Ponte Secco, i dolmen e menhir di Frades Muros e una decina di nuraghi. Il monumento faceva parte di un villaggio di capanne quadrangolari sviluppatosi sul pianoro a partire dalla seconda metà del IV millennio a.C. Nelle vicinanze c’è una necropoli con tombe ipogeiche a domus de janas e una serie di menhir, lastre di pietra per sacrifici e sfere di pietra.
Successivamente, genti appartenenti alla cultura di Ozieri costruirono una piattaforma a forma di tronco di piramide (27 m x 27 m, di circa 5,5 m di altezza), alla quale si accedeva mediante una rampa. Sulla piattaforma fu realizzato un vano rettangolare rivolto verso sud (12,50 m x 7,20), denominato Tempio rosso, in quanto le superfici esterne sono intonacate e dipinte in color ocra, con tracce di giallo e di nero. Intorno al 2800 a.C. la struttura fu ricoperta da un colossale riempimento di terra e pietre, contenuto da un rivestimento esterno in grandi blocchi di calcare.
Poco dopo si creò una seconda grande piattaforma troncopiramidale a gradoni (36 m x 29 m, di circa 10 m di altezza), accessibileattraverso una seconda rampa, lunga oltre 40 metri. Questo secondo stantuario, conosciuto anche come "Tempio a gradoni" ricorda le contemporanee ziqqurat mesopotamiche. Conservò la sua funzione di centro religioso per diversi secoli e fu abbandonato definitivamente nell’età del Bronzo, intorno al 1800 a.C. Durante la seconda guerra mondiale fu danneggiata la parte superiore dallo scavo di trincee per impiantare sull'altura delle batterie contraeree. Gli scavi archeologici furono condotti da Ercole Contu (1954-1958) e da Santo Tinè (1979-1990).
Oltre all'altare, nel complesso archeologico sono presenti altri monumentali. Nel lato est della rampa, è presente un lastrone di calcare di 8,2 tonnellate di circa tre metri per tre, che costituiva un dolmen o forse una tavola per offerte, munito di fori passanti nei bordi della pietra che potevano servire a legare le vittime dei sacrifici. Nello stesso lato della rampa d'accesso, fu trovata un'altra lastra, questa in trachite, del peso di circa 2,7 tonnellate. Nel lato opposto della rampa è stato rialzato un menhir di calcare di forma allungata, alto 4,40 m e pesante 5,7 tonnellate. Altri due monumenti litici, provenienti dalla zona ad est del complesso sono stati collocati nei pressi della lastra più grande, e sono due pietre calcaree sferoidali, la più grande, lavorata, pesa più di una tonnellata ed ha una circonferenza di 4,85 m, mentre la seconda ha un diametro di circa 60 cm., interpretati come rappresentazioni del sole e della luna.

Nuraghe Palmavera
Il complesso nuragico di Palmavera si trova lungo la strada costiera che da Alghero conduce verso Capo Caccia ed è costituito da diverse torri unite tra loro. La torre principale risale al XV a.C. e conserva la camera centrale coperta a tholos e realizzata con pietre in calcare. La torre ha un ingresso privo di anditi laterali e nicchie appena accennate nelle pareti della camera principale. Dovevano essere presenti anche alcune capanne all'esterno del nuraghe. Nella seconda fase edificatoria, nella prima metà del IX secolo a.C., fu aggiunta una seconda torre e rifasciata la torre precedente, in blocchi di arenaria. Le due torri comunicano tramite un cortile interno e un corridoio con nicchie. Intorno al 1000 a.C. fu realizzata la capanna delle riunioni, fornita di un sedile in pietra che corre lungo tutto il perimetro, interrotto da una vasca realizzata con lastroni in pietra e da un sedile-trono rotondo in pietra, con accanto una nicchia nella parete. Al centro della capanna, su un altare circolare, si trova un modellino di torre nuragica in arenaria (l'originale è al Museo Sanna di Sassari). In quest'epoca vennero inoltre costruite altre capanne nel villaggio, di maggiori dimensioni. Nel IX-VIII secolo a.C. il nuraghe venne rifasciato con blocchi nuovamente in calcare e venne costruita intorno al nuraghe un muro esterno con quattro torri-capanne, venendo a formare due cortili esterni, divisi tra loro da un muro privo di aperture. In uno di questi cortili era inserita la capanna delle riunioni, nell'altro è stato individuato un silos con imboccatura in blocchi di pietra.
Il villaggio venne distrutto da un incendio alla fine dell'VIII a.C. e successivamente fu sporadicamente frequentato in epoca punica e romana, come attestano alcune ceramiche rinvenute.
I primi scavi vennero condotti nel 1905 da Antonio Taramelli, coadiuvato da Filippo Nissardi. Il villaggio venne riportato alla luce negli anni 1961-1963 ad opera di Guglielmo Maetzke, contemporaneamente ad interventi di restauro sui resti del nuraghe. Altri scavi nel complesso nuragico si sono svolti a cura di Alberto Moravetti. Le alture circostanti il sito erano difese da nuraghi monotorre, alcuni dei quali ancora oggi in buono stato di conservazione. Molti dei reperti rinvenuti durante gli scavi, effettuati negli anni sessanta, sono esposti nei musei archeologici di Cagliari e di Sassari.

Necropoli Anghelo Ruju
La necropoli di Anghelu Ruju si trova nei pressi di Alghero, in località I Piani, a lato della Strada provinciale 42 dei Due Mari. Si tratta della più vasta necropoli della Sardegna prenuragica. Fu scoperta casualmente nel 1903 durante gli scavi per la costruzione di una casa colonica nell'area della azienda vinicola di Sella&Mosca.; Furono trovati un cranio umano e un vaso tripode. In seguito a questi ritrovamenti l'archeologo Antonio Taramelli effettuò, l'anno seguente, i primi scavi del sito su dieci domus de janas. In seguito ne vennero alla luce altre 21 ed ulteriori lavori di ricerca portarono a 38 le domus scoperte; i picchi di pietra utilizzati per scavarle furono ritrovati numerosi all'interno delle tombe.
I numerosi ritrovamenti (vasi, statuette di dea madre, armi, vaghi di collana e altro ancora) permettono di ascrivere la necropoli al Neolitico finale (Cultura di Ozieri 3200-2800 a.C.) e attestano il suo utilizzo fino nell'età del Rame e del Bronzo, tra il 2800 e il 1600 a.C.
La necropoli è costituita da due gruppi, di 7 e 31 unità, di domus de janas ipogee; una soltanto è monocellulare mentre le altre hanno planimetrie più articolate e una di esse contiene fino a undici vani. Sono accessibili attraverso un pozzetto verticale oppure un dromos discendente, quasi sempre provvisto di gradini che immettono nel vestibolo.
Studi antropologici effettuati sui resti umani rinvenuti nella necropoli hanno mostrato l'esistenza di due tipi umani principali: uno maggioritario dolicomorfo (84%) indigeno e uno minoritario brachimorfo (16%) tipico delle genti del vaso campaniforme, l'altezza media era di circa 1.60 metri. Il nome, Angelo Ruju, è quello del proprietario della tenuta in cui furono scoperte.

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