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Esercito “opzionale”. Conflitti ed eserciti occidentali nel XXI secolo

Creato il 12 febbraio 2015 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Esercito “opzionale”. Conflitti ed eserciti occidentali nel XXI secolo
Introduzione

Dalla caduta del muro di Berlino, avvenuta venticinque anni fa, gli eserciti occidentali si sono immersi in un processo di ridimensionamento che sembra non aver fine. Il disarmo è accentuato nel caso degli eserciti europei. Dopo venticinque anni di continua riduzione, alcuni degli eserciti dei nostri alleati hanno smesso di ridursi solo in apparenza, iniziando ad eliminare le capacità considerate “essenziali”. Per esempio, i Paesi Bassi hanno dismesso nel 2011 le loro ultime unità di carri armati, misura adottata anche dal Belgio nel settembre del 2014, la Francia è in procinto di sciogliere le brigate di sostegno al Corpo d’Armata, l’esercito tedesco conta di ridurre drasticamente la sua artiglieria campale e cedere tutta la sua artiglieria antiaerea alla Luftwaffe, che, a sua volta, pensa di sciogliere tutte le unità antiaeree ricevute dall’esercito la cui missione era di proteggere le unità terrestri (AOAD – Army Organic Air Defense).

Questa riduzione si basa su due caratteristiche essenziali che presenta la realtà attuale: la diminuzione della possibilità di un conflitto convenzionale tra Stati e la partecipazione della maggior parte degli Stati democratici occidentali al sistema di sicurezza collettivo della NATO.

E’ importante tener conto del fatto che gli eserciti (e le diverse unità che li compongono) sono organizzazioni complesse da gestire e da addestrare e che, per di più, questi compiti richiedono tempo. In pratica, la prima battaglia di ogni conflitto si è sempre combattuta con le armi disponibili in tempo di pace e nemmeno la più rapida mobilitazione dell’industria bellica può compensare tale circostanza. Inoltre, quando non si perde solo un’unità, ma una “capacità” (situazione che accade quando si arriva a sciogliere tutte le unità dello stesso tipo) la ripresa si presenta più lenta: è necessario tener conto del fatto che le nostre attuali Forze Armate sono il risultato di una lunga evoluzione storica durante la quale è stato pagato un elevatissimo prezzo, in termini di oro e di sangue, per arrivare ai livelli di efficacia attuale. Come conseguenza, i processi di riduzione degli eserciti avranno un effetto duraturo (e molto dannoso) sulla loro efficacia futura.

Risulta opportuno analizzare tali processi alla luce di alcune delle teorie vigenti nel campo delle Relazioni Internazionali.

L’anarchia del Sistema Internazionale

La premessa alla base della scuola “classica” delle Relazioni Internazionali, il realismo nelle sue differenti versioni, è che il Sistema Internazionale è anarchico: non esiste un’autorità sovranazionale capace di imporre leggi o valori agli Stati. Le organizzazioni internazionali (come l’ONU) sarebbero in realtà il riflesso istituzionale della distribuzione del potere nel Sistema Internazionale.

La natura anarchica del Sistema Internazionale determina che gli Stati possono fidarsi solo di loro stessi, a causa del timore che, in caso di conflitto, coloro i quali hanno precedentemente assunto impegni di sicurezza decidano di dare priorità al proprio interesse, abbandonando i loro alleati prima di rischiare danni o perdite in difesa degli interessi altrui.

D’altra parte, l’identificazione – consapevole o inconsapevole – tipicamente occidentale tra potere economico e potere militare è molto recente (appare solo dalla Rivoluzione Industriale) e si basa sull’esistenza di una struttura produttiva molto particolare che sta per sparire. In assenza di questa identità tra ricchezza e forza militare, uno Stato ricco ma militarmente debole è una “preda” nel Sistema Internazionale ed è tanto più appetibile quanto è più ricco e più debole.

I sistemi di sicurezza collettiva hanno il vantaggio di “ripartire il carico” della difesa tra tutti gli alleati. Tuttavia, pongono un inconveniente molto grave: la diluizione della responsabilità individuale. Nelle relazioni internazionali, l’effetto di questa diluizione di responsabilità è conosciuto come “buck-passing“. Questo concetto rispecchia gli sforzi di uno Stato nel fare ricadere sugli altri Stati il costo di opporsi a un potenziale avversario (“scaricabarile”). Così, in un sistema di sicurezza collettiva, tutti i partecipanti sono “consumatori” della sicurezza, però esiste sempre la tentazione di provare a contribuire il meno possibile al sistema, pur mantenendone la partecipazione ai relativi benefici. Questi tipi di sistemi, specialmente quando sono molto estesi (come la NATO) possono incrementare la percezione che la sicurezza sia un “bene comune” (un bene che è disponibile a tutti e di cui l’uso di uno non pregiudica l’utilizzo da parte degli altri, cioè un bene di cui si può usufruire anche se non si contribuisce), soggetto alla nota “tragedia dei beni comuni” secondo cui i membri provano a evitare il “pagamento” del loro contributo al sistema.

Al “buck-passing” e alla considerazione della “sicurezza” come “un bene comune”, si lega il fatto che la scomparsa della minaccia comune ed evidente della Guerra Fredda – il Patto di Varsavia come mezzo dell’espansionismo sovietico – è stata sostituita da altre minacce meno chiare ed evidenti, sentite con diverse intensità dai nostri alleati occidentali. Questa circostanza mina la base del nostro sistema di sicurezza collettiva poiché aumenta la paura che gli alleati che si sentono meno minacciati preferiscano il proprio interesse ed eludano i loro obblighi prima di subire danni e perdite più o meno ingenti, in difesa di interessi che non percepiscono come propri.

Inoltre, i pericoli apparsi dopo la Guerra Fredda (fondamentalismo islamico, crimine organizzato transnazionale, proliferazione di armi di distruzione di massa, immigrazione clandestina…) non mettono in pericolo l’esistenza degli Stati occidentali (almeno non nel breve o medio periodo) e questo indebolisce gli impegni degli alleati europei che non si sentono direttamente e immediatamente minacciati. Di conseguenza, è molto più probabile che si verifichi il caso del “buck-passing” anziché il suo opposto, il cosiddetto “entrapment” o “chain-ganging“, secondo cui un alleato si vede coinvolto a difendere gli interessi di un altro in forma involontaria, con il fine di preservare l’integrità dell’alleanza. Il “chain-ganging” si riscontra quando ci si trova di fronte a una minaccia esistenziale condivisa che può essere affrontata solo sommando i mezzi degli Stati minacciati, così la preservazione dell’alleanza ha un enorme valore.

Gli Stati come attori razionali del Sistema Internazionale

Tutte le teorie sulle Relazioni Internazionali si basano sulla premessa che gli Stati operano nel Sistema Internazionale come attori razionali. Di conseguenza, qualsiasi azione di uno Stato è subordinata a una valutazione costo/beneficio. Qualsiasi comportamento, dunque, si esegue o si omette in funzione di tale valutazione.

Tutto ciò è alla base di concetti molto utilizzati negli studi strategici e nelle relazioni internazionali, come quello della “dissuasione” che si basa sul fatto di aumentare il costo che una determinata azione suppone per l’avversario (“deterrenza per punizione”). Tuttavia, il dato rilevante non è il “costo” ma la relazione tra il “costo” e il “beneficio” che si spera di ottenere da una determinata azione: il semplice aumento del costo non garantisce che l’avversario non consideri che il “beneficio” ottenuto non riesca a compensarlo. Questo può dipendere da una percezione equivoca del “costo” dell’azione da parte dell’avversario, da una valutazione erronea da parte del deterrente del “beneficio” che l’avversario spera di ottenere dalla propria azione, o anche dall’esistenza di benefici nascosti o non direttamente legati all’azione compiuta. Molte crisi internazionali sono dovute a percezioni di cambiamenti futuri da parte dei leader politici o a tentativi di deviare l’attenzione pubblica verso crisi esterne per evitare l’instabilità politica interna (attraverso motivazioni che spesso non hanno una relazione diretta con la crisi scatenata: un esempio classico è l’occupazione argentina delle isole Malvinas nel 1982).

Ogni azione ha dei costi, ma li ha anche una inazione. Quindi, nel caso di un dato comportamento esisteranno Stati animati da necessità, mentre altri lo saranno per opportunità. Gli Stati motivati da necessità saranno quelli in cui la relazione costo/beneficio percepita per la non azione è molto alta (così alta che arriva a superare la relazione corrispondente per l’azione), quindi la necessità di intraprendere detta precisa azione sarà ugualmente alta; gli Stati motivati dall’opportunità saranno quelli che percepiscono una relazione costo/beneficio favorevole all’azione, perché stimano che i costi sono bassi rispetto al possibile beneficio ottenibile, senza che esista una rilevante relazione costo/beneficio per la non azione.

Dunque è possibile dedurre che esistono conflitti derivati da azioni intraprese per opportunità (“conflitti di scelta” che hanno natura opzionale, perché hanno implicazioni e responsabilità internazionali, umanitarie o di sicurezza per lo Stato in questione, le cui conseguenze però sono limitate alla sicurezza nazionale o, almeno, non immediate) e altri derivati da azioni intraprese per necessità (“conflitti di necessità”: non sono opzionali in quanto hanno un impatto diretto e conseguenze potenzialmente gravi e immediate sulla sicurezza nazionale).

Nel caso dei sistemi di sicurezza collettiva (come la NATO) e in relazione alle tipologie di conflitti, si possono avere tre differenti situazioni:

  1. un conflitto è “ di necessità” per tutti i suoi membri;
  2. un conflitto è “di necessità” per alcuni membri e “di scelta” per gli altri;
  3. un conflitto è “di scelta” per tutti i suoi membri.

 

La possibilità che un sistema di sicurezza agisca in maniera collettiva è maggiore nel primo dei casi descritti e decrescente nei due seguenti. Ugualmente, l’inclinazione a compiere sacrifici sarà maggiore nel primo caso, nel secondo sarà maggiore solo per il membro o i membri che percepiscono la “necessità” e nel terzo sarà variabile secondo gli interessi particolari dei membri del sistema, ma non sarà mai molto forte.

Per la maggior parte dei membri europei della NATO o dell’UE, le operazioni recenti o quelle in corso  (Iraq nel 1991 e 2003, Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Libano, Chad, Libia, Mali…) sono “conflitti di scelta”: la partecipazione a questi conflitti è sempre stata opzionale (in tutti questi casi si è trattato di una decisione politica, non di una situazione inevitabile o imposta) e l’impatto per la sicurezza nazionale della maggior parte degli Stati europei coinvolti (quando vi è stato) è stato ed è limitato, indiretto e/o differito nel tempo. Di conseguenza, come afferma la teoria di uno Stato integrato in un sistema di sicurezza collettivo, si può concludere che questi Stati hanno reagito attraverso un conflitto “di scelta”: hanno cioè partecipato il meno possibile (“buck-passing”), come dimostrano la parzialità dei mezzi dispiegati e i numerosi caveat che hanno limitato il comportamento delle truppe.

Nel caso specifico della Spagna, gli unici “conflitti di necessità” prevedibili possono inquadrarsi nel caso della “minaccia non condivisa” o in quello di un conflitto che colpisce la sicurezza collettiva. Relativamente alla prima ipotesi, per gli altri alleati si tratterà di un “conflitto di scelta” e la loro risposta più prevedibile sarà il “buck-passing”, come afferma la Strategia di Sicurezza Nazionale [“... i conflitti armati che fossero causati come conseguenza (...) della difesa degli interessi o dei valori esclusivamente nazionali - nei quali si interverrà in maniera individuale - ...]. D’altra parte, un conflitto che minacci a livello esistenziale l’insieme dei membri dell’ONU o dell’UE (che possa provocare dunque un “conflitto di necessità” per tutti gli alleati) è molto poco probabile (dipenderebbe da situazioni assolutamente inaspettate, come gli eventi in Ucraina).

Gli eserciti come strumenti dello Stato

Gli eserciti sono strumenti destinati a compiere funzioni specifiche: un Esercito dedito a mantenere l’ordine pubblico non è la stessa cosa di uno la cui funzione è quella di agire come “polizia imperiale” nelle colonie, o di uno destinato a difendere il territorio nazionale da un attacco, o di un altro ancora il cui ruolo è quello di reprimere movimenti d’insorgenza locali… in tutti questi casi la preparazione, l’organizzazione e i mezzi degli uni e degli altri saranno differenti. Quanto più gli eserciti saranno specializzati nelle loro particolari funzioni, meglio l’eseguiranno; tuttavia perderanno sempre di più la capacità di sviluppare missioni differenti dalla propria. Sebbene spesso si afferma che tutti gli Eserciti sono “uguali”, in realtà due Eserciti sono tanto diversi quanto lo sono una sega e una chiave inglese: sono entrambi strumenti ma sono progettati per fare cose differenti.

Gli eserciti creati per gli scontri ad alta intensità sono simili a qualsiasi altra macchina complessa: ciascuno dei suoi pezzi (ogni “unità”) compie una funzione differente, in modo che l’effetto totale sia di molto superiore alla semplice somma dei contributi di ciascuno dei suoi pezzi. Ogni pezzo è “insostituibile”: senza, la macchina o non funziona o perde alcune delle sue caratteristiche. Queste perdite possono essere “fondamentali” (il caso di una macchina senza motore) o “complementari” (come una macchina senza aria condizionata). Tuttavia, un’automobile ha una funzione molto chiara (il trasporto su strada), e così nell’esempio dell’automobile è relativamente facile capire quali parti sono fondamentali e quali complementari. Non è così immediato nel caso di organizzazioni umane complesse come gli eserciti, che, inoltre, si confrontano anche con l’enorme incertezza relativa al fatto di non sapere quale sarà la situazione futura in cui saranno coinvolti.

Le caratteristiche degli Eserciti condizionano il modo in cui il potere politico si serve di essi. Un esempio storico esplicativo è il caso delle garanzie di sicurezza che la Francia concesse alla Polonia prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale: in caso di un attacco tedesco alla Polonia, la Francia avrebbe attaccato la Germania. Tali garanzie, in teoria, rappresentavano una gravissima minaccia per la Germania: se avesse attaccato la Polonia, il potente esercito francese avrebbe attaccato a sua volta la retroguardia tedesca… Tuttavia, l’esercito francese da anni si stava riorganizzando come una forza difensiva e le sue capacità offensive erano in pratica nulle. In un dibattito parlamentare del 1935, il Ministro della Guerra francese, il Generale Maurin, lo lasciava intendere chiaramente:

Come possiamo credere ancora nell’offensiva dopo aver speso milioni nel creare una frontiera fortificata? Saremo abbastanza pazzi da avanzare più in là di questa barriera fino a Dio sa che avventura…?

Il risultato è noto: la Germania ha potuto attaccare la Polonia senza preoccuparsi della reazione della Francia: lo “strumento” militare francese non era quello di cui avrebbe avuto bisogno il potere politico e questo non cambiò nei pochi anni in cui l’inadeguatezza bellica fu evidente.

Altro esempio storico è quello della “regola dei dieci anni”: nel 1919 il Governo inglese stabilì come guida per la pianificazione delle sue Forze Armate che l’Impero Britannico non sarebbe stato coinvolto in nessun conflitto importante “nei prossimi dieci anni”. Di conseguenza si attuarono importanti programmi di riduzione delle forze e si rallentarono i programmi di modernizzazione degli armamenti, confidando che ci sarebbe stato tempo (dieci anni) per riarmarsi in caso di necessità. Il bilancio della difesa si ridusse da 766 milioni di sterline nel 1919 a poco più di 100 milioni dieci anni dopo. La “regola dei dieci anni” diventò “permanente” nel 1928, rinnovandosi automaticamente ogni anno. Benchè questo rinnovo automatico fu abrogato nel 1932, i bilanci della difesa crescevano poco, trascinati dall’inerzia degli anni precedenti e dalla mancanza di minacce, insieme agli effetti della crisi del 1929… Sette anni dopo scoppiò la seconda guerra mondiale.

Questi esempi mostrano da un lato l’effetto della configurazione delle Forze Armate in base all’uso politico che si pretende di farne e, dall’altro, quanto siano ampi i margini necessari per recuperare le capacità militari perse, tanto ampi da eccedere di gran lunga le previsioni realizzate.

Se a livello politico si decide di ridurre il numero delle Forze Armate (nell’ambito dei “conflitti di scelta”) non rimane che aver fiducia nelle valutazioni che hanno portato a tale conclusione e nella circostanza che la situazione internazionale rimanga relativamente stabile. Il rischio principale, tuttavia, risiede nel fatto che il decisore politico possa non essere pienamente cosciente dell’effetto ultimo delle riduzioni sulla capacità delle Forze Armate e del periodo necessario per recuperare tali capacità.

Conclusioni

La riduzione degli eserciti europei ha ripercussioni molto più complesse di quanto si pensi.

In alcuni casi, la perdita di capacità chiave ha fatto in modo che alcuni eserciti abbiano perso la capacità di compiere operazioni indipendenti in uno scenario di combattimento ad alto rischio. Questo implica una considerevole limitazione di sovranità e d’indipendenza. In pratica, gli Stati che decidono di adottare tali misure lasciano la propria difesa nelle mani di qualcun altro. Oltre all’evidente pericolo che i propri alleati pratichino il “buck-passing”, questa politica comporta importanti rischi per chi decide di attuarla. Non è sorprendente che sia stata adottata solamente da quegli Stati (come il Belgio e i Paesi Bassi) collocati in zone geograficamente “tranquille”. Tali Stati concepiscono il loro strumento militare come un piccolo contributo all’interno di uno sforzo alleato (che – salvo il caso poco probabile che si scateni un conflitto globale – s’inserirà in un “conflitto di scelta”) respingendo l’idea di venire coinvolti in un conflitto di “necessità”.

In altri casi, pur mantenendo la capacità di operare in maniera indipendente, la  perdita di capacità si basa sul fatto che gli Stati considerano che i loro eserciti prendono parte solamente a “conflitti di scelta”, rifiutando di essere coinvolti in un “conflitto di necessità”. E’ significativo che il Capo della Luftwaffe tedesca avvalli la dissoluzione delle unità AOAD sulla base del fatto che la Germania rifiuta uno spiegamento terrestre, salvo che vi sia nel teatro delle operazioni una sua superiorità aerea totale… Per di più, la Germania ammette che il suo esercito di terra non è nella situazione di poter operare efficacemente nel caso in cui non disponga di superiorità aerea. Tale dichiarazione implica che la Germania pensa che potrà sempre “scegliere” in quali conflitti “vuole” intervenire e in quali no. E’dunque evidente che la Germania configura le sue Forze Armate come uno strumento per conflitti “di scelta”.

Un’attenta analisi delle riduzioni effettuate nella maggior parte degli Eserciti europei, della loro riorganizzazione organica e dei loro programmi di aumento e riduzione dei mezzi principali ci porterebbe a conclusioni simili.

I “conflitti di scelta” sono, per definizione, “opzionali”. Uno dei principali rischi cui si va incontro allorchè si configurano gli Eserciti come strumenti adatti solamente per questo tipo di conflitti risiede nel fatto che gli Eserciti potrebbero diventare anch’essi delle istituzioni “opzionali”.

Gli Stati detengono il monopolio della forza legittima: per esercitare questo monopolio, mantengono alcune istituzioni coercitive incaricate proprio di esercitare la forza legittima. Inizialmente, queste Istituzioni erano gli eserciti, che si occupavano sia dei conflitti esterni sia di mantenere l’ordine pubblico e la legge. E’ da questo momento che nasce la concezione ottocentesca degli Eserciti come “colonna vertebrale della patria”. Tuttavia, a metà del XIX secolo si produce una chiara differenziazione tra l’esercizio della forza “esterna” (compito degli Eserciti) e quello del mantenimento della legge e dell’ordine (con l’apparizione dei corpi di Polizia, Guardia Civile, Gendarmeria…)

Nella situazione attuale in cui gli Eserciti sono orientati quasi esclusivamente verso “conflitti di scelta”, non sorprende il fatto che essi stiano perdendo d’importanza (e di budget e di efficacia) mentre i corpi incaricati di mantenere la legge e l’ordine (che non sono tematiche “opzionali” ma di “necessità”) si stanno incrementando e rinforzando.

Gli eserciti occidentali sono responsabili di questa tendenza: dalla fine della Guerra Fredda, le Forze Armate europee hanno giustificato la loro esistenza basandola sulla partecipazione ad operazioni esterne. Non sorprende allora che l’opinione pubblica abbia finito per pensare che sia solo questa la loro funzione: la conseguenza logica di ciò è che – in un contesto di crisi economica e caratterizzato nel breve periodo da una bassa percezione della minaccia del fondamentalismo islamico, del terrorismo e della pirateria – viene considerato opportuno rinunciare a questo tipo di operazioni e non si crede necessario dotare l’esercito di personale e mezzi.

Dunque, se la nostra opinione pubblica (e quindi il decisore politico) considera le proprie Forze Armate come un’istituzione “opzionale” le possibilità di ottenere risorse materiali e/o umane per la difesa saranno sempre minori. In ogni caso, la stabilità di una situazione in cui Stati ricchi ma militarmente deboli affidano la propria difesa a un sistema di sicurezza collettivo al quale tutti hanno intenzione di contribuire il meno possibile (poiché predomina il “buck-passing”) e in assenza di una minaccia comune che dia valore all’Alleanza, sfida la teoria generalmente accettata delle Relazioni Internazionali. Sfortunatamente spesso gli “esperimenti” in questo campo hanno portato a tragiche conseguenze.

(Traduzione dallo spagnolo di Annalisa Belforte. Adattamento del testo di Maya Santamaria)


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