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di Michele Marsonet. “Incommensurabilità” è un termine assai diffuso in filosofia e nell’ambito delle scienze sociali. Il relativismo concettuale, per esempio, sostiene la presenza di differenze incommensurabili tra i nostri concetti e quelli utilizzati da individui di altre società, aggiungendo che non vi sono criteri razionali per giudicare validi gli uni piuttosto che gli altri. Con ciò s’intende che culture diverse impiegano schemi concettuali “non” paragonabili per definire ciò che esiste nel mondo, per determinare come oggetti ed eventi sono organizzati nel tempo e nello spazio, e quali tipi di relazioni vi siano tra le cose. Se tale è la situazione, non è possibile fornire motivi razionali per concludere che uno degli schemi concettuali tra loro in competizione riflette meglio di un altro la realtà.
Basandoci sia sul senso comune sia sulla visione del mondo della scienza classica occidentale noi identifichiamo oggetti dotati di proprietà causali, collocati nello spazio e nel tempo; ciò ci porta a concludere che ogni evento ha una causa. Tuttavia i relativisti culturali sostengono che questo è soltanto uno tra molti schemi concettuali possibili, e che, inoltre, la varietà delle alternative si può constatare attraverso lo studio delle culture non occidentali.
Un esempio molto citato al riguardo è l’ipotesi formulata dal linguista americano Benjamin Lee Whorf che negli anni ’30 del secolo scorso studiò in modo intensivo la lingua degli indiani Hopi. Dalle sue ricerche egli trae la conclusione che le concezioni Hopi dello spazio, del tempo, della causalità e di altre categorie metafisiche fondamentali sembrano radicalmente differenti da quelle in uso nelle lingue e nelle società occidentali. Com’è noto, Kant affermava nel XVIII secolo che l’intero pensiero razionale dipende dall’esistenza di un insieme di concetti universali (trans-culturali) mediante i quali l’individuo analizza il mondo empirico; “oggetto fisico”, “spazio”, “tempo” e “causalità” sono alcune delle idee che il filosofo tedesco riteneva fondamentali e universali, cioé valide per ogni essere umano in quanto tale.
Whorf, al contrario, sostiene che lo schema concettuale Hopi è radicalmente diverso da quello kantiano, a sua volta basato sulla fisica newtoniana e sulla geometria euclidea. Egli scrive, infatti, che il linguaggio Hopi non sembra includere parole, forme grammaticali o espressioni linguistiche che si riferiscano direttamente a ciò che noi chiamiamo “tempo”, né a passato, presente e futuro, o al concetto di “durata” e di permanenza temporale. Eppure tale linguaggio è in grado, da un lato, di spiegare e, dall’altro, di descrivere in maniera corretta tutti i fenomeni osservabili dell’universo. Risulta dunque inevitabile concludere a suo avviso che le varie culture incorporano schemi concettuali del tutto differenti, dal che segue che esse categorizzano il mondo in modi radicalmente diversi.
La caratterizzazione che Whorf fornisce del linguaggio Hopi rappresenta una versione particolarmente forte del relativismo concettuale, ma alcuni antropologi ne hanno ulteriormente accentuato alcuni punti. Prendendo per esempio in considerazione linguaggio e visione del mondo degli indiani Navajo, si sostiene che vi sono profonde differenze tra il loro modo di dividere il mondo in oggetti e quello nostro (occidentale), e che occorre un’approfondita indagine etnografica per scoprire lo schema concettuale Navajo. Ancora una volta il risultato è che le culture non occidentali possiedono schemi concettuali diversi per analizzare e categorizzare la realtà quotidiana, mentre – e questo è il fatto che più sorprende – sarebbe difficile o addirittura impossibile tradurre tali schemi entro la visione del mondo che noi adottiamo.
Il linguaggio Navajo, affermano alcuni antropologi, presuppone uno schema concettuale organizzato intorno a un dualismo di forme dinamiche (attive) e statiche, e la sua classificazione delle cose (animali, oggetti naturali, etc.) riflette tale dualismo. Il concetto di “controllo” svolge in questo caso un ruolo centrale: gli oggetti vengono ordinati secondo una certa gerarchia ascendente che stabilisce quali tipi di cose ne controllano o influenzano altre.
Come prima dicevo il relativismo concettuale fa spesso perno sulla nozione di “incommensurabilità”, rilevando in sintonia con l’ipotesi di Whorf che differenti culture possono avere schemi concettuali distinti e incommensurabili. L’idea di base è che due schemi concettuali sono incommensurabili se risulta impossibile stabilire l’equivalenza di definizione tra i concetti che loro appartengono. Supponiamo che due individui stiano conversando mentre passeggiano in un bosco, e che dalla loro conversazione emerga il fatto che il primo interlocutore possiede uno schema concettuale più raffinato di quello del secondo: il primo parla di pini, abeti e faggi dove il secondo vede soltanto alberi. Il primo distingue le lepri dagli scoiattoli, mentre il secondo vede solo piccoli animali. Questi due schemi sono certamente distinti ma non incommensurabili, poiché è possibile stabilire delle equivalenze tra i loro termini. Così il concetto di “albero” equivale all’unione dei concetti di “pino”, “abete”, “faggio”, etc.
Dobbiamo insomma paragonare il modo di dividere il mondo in oggetti; nel caso appena menzionato i due individui identificano le stesse entità – alberi e animali – ma utilizzano categorie di diversa estensione per classificarle. Si può pertanto procedere a una sorta di sovrapposizione delle due strutture: tutto ciò che è un “albero” in uno schema è un pino, un abete o un faggio nell’altro, e lo stesso dicasi per gli altri concetti. Cos’è, allora, l’incommensurabilità concettuale “completa”? Com’è noto ne parla Thomas Kuhn ne “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”. A suo avviso è possibile parlare di incommensurabilità totale dei concetti appartenenti a diversi paradigmi scientifici. Questi ultimi incorporano visioni del mondo complessive, ognuna dotata di categorie proprie, e paradigmi alternativi costituiscono sistemi di concetti e credenze che non possono essere tradotti gli uni nei termini degli altri. I significati dei termini teorici, le interpretazioni dei dati empirici e i criteri d’inferenza risultano pertanto incommensurabili quando si passa da un paradigma a un altro. Simili argomenti spiegano lo scetticismo di Kuhn circa l’esistenza di un unico metodo scientifico. Se una disputa teorica non può essere espressa in un linguaggio che sia comprensibile per entrambi gli interlocutori, chiaramente non v’è modo di risolvere logicamente eventuali dispute.
Esaminando tuttavia con attenzione i vari argomenti disponibili, ci accorgiamo ben presto che le tesi a favore del relativismo concettuale radicale sono sostanzialmente di due tipi: (1) Vi sono parecchi argomenti a priori (e dunque astratti) – avanzati da filosofi – i quali affermano la “possibilità logica” che differenti comunità utilizzino schemi concettuali incommensurabili. (2) Gli argomenti classificabili nel secondo gruppo sono invece a posteriori (e hanno quindi carattere empirico). Si tratta di tesi, sostenute in particolare da scienziati sociali come antropologi e linguisti, le quali affermano che gruppi socio-linguistici ben determinati (e pertanto realmente esistenti) utilizzano de facto (e non solo a livello teorico) schemi concettuali incommensurabili rispetto al nostro. Tutto ciò riveste grande importanza ai fini del discorso. (1) e (2), infatti, non vengono di solito distinti con chiarezza, e molti autori tendono addirittura a confonderli, mentre è ovvio che la forza delle due tipologie appena menzionate è assai diversa. E’ praticamente impossibile contestare a priori l’eventualità che esistano schemi concettuali radicalmente diversi.
Trattandosi di una possibilità logica, non v’è nulla d’incoerente nelle argomentazioni a suo favore, e il semplice ricorso agli esperimenti mentali ci convince di questo. D’altro canto, è un mero dato di fatto che tutti i tentativi empirici di identificare schemi concettuali realmente esistenti che risultino pure “completamente” incommensurabili rispetto al nostro sono falliti. Si sono soltanto trovati casi di incommensurabilità “parziale”, e questo porta a concludere che la tesi del relativismo concettuale radicale è sì coerente dal punto di vista logico, ma anche falsa quando venga riferita a gruppi umani realmente esistenti. Si noti comunque che, anche da un punto di vista puramente filosofico, la nozione di schemi concettuali incommensurabili presta il fianco a serie obiezioni. Si può ad esempio affermare che l’incommensurabilità radicale non può essere sostenuta perché rende inintelligibile il proposito della traduzione inter-comunitaria.
Le argomentazioni a favore del relativismo concettuale debbono per forza rinunciare alla nozione di verità adottando quelle di “verità-per-il-nostro gruppo” e di “verità-per-il-loro gruppo”. Tuttavia va osservato che la possibilità stessa della traduzione dipende dalla disponibilità di condizioni di verità inter-culturali nei cui termini le coppie di enunciati di due lingue siano effettivamente comparabili. Ne risulta che, rinunciando alla nozione di verità, siamo obbligati pure a rinunciare alla possibilità di tradurre da uno schema all’altro. In questo modo gli schemi concettuali diventano una versione modernizzata delle monadi di Leibniz che, com’è risaputo, non hanno porte né finestre.
Featured image, Benjamin Lee Whorf.
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