Mani, dita intrecciate alle alghe.
Braccia di donne chiuse a difendere sonni di bimbi affamati.
Chilometri di sabbia sotto i piedi nudi, e piaghe e paura.
Notti di cammino. Le pance vuote dei bambini che gorgogliano forte, mentre l’andare è un trascinarsi disperato
freddo stellato sulla fuga e calore ardente e luce nel terrore e nei suoni di bombe. Vicino.
L’odore della paura non è buono.
E la vernice scrostata, il fasciame largo, il singhiozzo del motore antico. E i volti disperati e disgraziati di chi conduce. E urla e paura. Quando è cominciata la paura? Quanto durerà la paura.
Corpi immobili, che fremono nell’oscurità gelida, in bilico sull’acqua nera. Neppure un gesto, per giorni, funamboli dell’esodo. Bambini stretti ai corpi gonfi e tesi delle madri, promiscuità e terrore. Ancora.
E l’acqua, dopo il fuoco. La costa lontana. Vicina. La speranza che annega, piano, tra le alghe e i pesci dalle squame lucenti.
Le vesti che si aprono, leggere e scivolano via, lasciando i corpi nudi, inermi.
mani, dita intrecciate alle alghe.
Io non so la paura e l’odore, la fuga, la fame.
Conosco la retorica delle frasi e dei lutti nazionali, le parole della vergogna e dell’indegnità, la legge dell’ignavia e quella della cinica spietata indifferenza. Conosco le lacrime di coccodrilli, cui non segue partecipazione, accoglienza, solidarietà, ma il fastidio, il quotidiano rifiuto, l’esclusione. I distinguo. Si, ma. Qui è nostro. Un recinto di privilegio e paura. Via di qui.
Non conosco il tuo nome, nudo tra le alghe e le ancore antiche, ma lo ripeto tra me, chiedendo perdono.
(foto internet)