La recente discussione presso la Camera dei Deputati relativa all'abolizione delle Provincie può aver fatto sorgere un interessante quesito nella mente dell'attento cittadino: da dove nascono, e a cosa servirono storicamente le provincie? Un'analisi storica completa per l'intera Italia in ogni epoca sarebbe ovviamente eccessiva e per la sede e per le capacità del divulgatore, ma può essere ragionevolmente fatta almeno per il Sud degli ultimi due secoli, atteso che in esso il sistema provinciale trovò sempre espressione in ogni epoca storica, pur incarnandosi diversamente col mutare dei tempi e delle esigenze. Sarà bene tuttavia precisare fin dal principio che l'esistenza di enti locali di secondo livello, pur sostanzialmente rintracciabile in ogni ordinamento, ha senza dubbio subìto nel corso dei secoli tante rivoluzioni che talvolta risulta difficile attribuire la nostra medesima nozione di provincia alle trascorse organizzazioni. Onde facilitare quindi il nostro percorso di ricerca, partiremo ab antiquis dalla più elementare organizzazione del primo Impero Romano, e saltata a piè pari la gloriosa Storia medioevale giungeremo all'età moderna quando, in effetti quasi ex nihilo, cominciarono ad affacciarsi sul panorama giuridico le provincie che conosciamo oggi (o almeno i loro diretti antenati). Disamine più approfondite dovrebbero contenere almeno qualche notizia sulle condizioni dell'amministrazione territoriale del dominato, nonché su quella propriamente bizantina, sull'araba, sull'aragonese e castigliana, su quella residuale del c. d. antico diritto borbonico e poi, in fine, giungere all'evo moderno, cioè alla Rivoluzione Francese. Ma per queste notizie rimandiamo il benevolo lettore a ben più meritevoli, ed approfonditi, studi. Il primo problema sta nel definire l'espressione "provincia", che non ha mai avuto un significato giuridicamente univoco. Dal punto di vista etimologico essa evidentemente deriva dal verbo Latino provoco, nel significato di "rivolgersi a qualcuno perché faccia qualcosa", analogamente all'attuale forma provocare; in particolare era definita provocatio la procedura d'appello avverso i provvedimenti d'una qualche autorità, e quindi in séguito l'àmbito di giurisdizione del magistrato cui ci si poteva rivolgere. Nel Latino classico quindi l'espressione provincia passò meglio ad indicare l'area entro cui un certo funzionario esercitava validamente la propria potestà, analogamente a quanto avviene oggi (infatti al di fuori dei confini provinciali, così come regionali o comunali, è nulla l'autorità degli organi ad essa preposti, e cioè il Presidente della Regione Lazio non ha alcun potere sul comune di Casoria, etc.). Come ben si vede si tratta d'un termine abbastanza generico, adoperato con certezza la prima volta verso il 241 a. C. in séguito alla dolorosa presa di Sicilia e poi esteso a tutte le zone di fresca conquista, tra cui Sardegna, Spagna e Gallia, quasi mai seguendo uno schema unitario, ma adattando spesse volte l'esigenza del controllo territoriale alle condizioni contingenti dei popoli vinti, tollerando forme amministrative ibride, complesse e talvolta a dire il vero assai pasticciate per consentire l'apparenza d'un minimo di autonomia alle genti "aggregate" all'Impero, che fu tale di fatto ben prima che assumesse questo nome di diritto. Non è possibile quindi paragonare le provinciæ Romane alle nostre, perché svolgevano funzioni diverse e si trattava di enti di primo livello; un qualche parallelo può essere fatto invece relativamente alle in cui Augusto divise l'Italia (che come tale costituiva, seppure con diversa intensità, un territorio di pertinenza dell'Urbe). Le regiones erano undici, ed i loro confini corrispondevano grossomodo a quelli fissati dalle popolazioni preromane, nell'ottica di generale restaurazione che com'è noto caratterizzò l'età augustea. Bisogna dire che tale suddivisione amministrativa non ebbe lunga vita, né n'è certa l'esatta funzione, e sarebbe rimasta forse ignota ai più se non fosse stata riesumata nell'Ottocento da antichisti come il Mommsen, che la adoperò per catalogare tutte le iscrizioni latine conosciute nel suo mastodontico Corpus; a questo periodo si devono anche i loro nomi, visto che per i Romani valeva solo l'ordinale, da cui questo facile elenco: Regio I Latium et Campania, Regio II Apulia et Calabria, Regio III Lucania et Bruttii, Regio IV Samnium, Regio V Picenum, Regio VI Umbria, Regio VII Etruria, Regio VIII Aemilia, Regio IX Liguria, Regio X Venetia et Histria, Regio XI Transpadana. Va specificato però che il Brutium è grossomodo l'attuale provincia di Reggio Calabria, mentre la Calabria si trovava dove oggi sorge Brindisi; l' Apulia conteneva solo l'alta Puglia e parte della Basilicata, che con l'attuale alta Calabria andava a costituire la Lucania; il Samnium dei Sanniti (in Osco Safinim) prendeva oltre mezza Campania, nome con cui invece si indicava una zona comprendente più o meno le attuali provincie di Napoli e Salerno; il Picenum altro non era che la zona abitata dagli ormai sconosciuti Piceni, fondatori di Ascoli, e quindi corrispondente a parte del Molise e degli Abruzzi; Venetia era la zona dei Veneti, e cioè tutto il Triveneto e mezza Lombardia; la Transpadana era una regione al di là del Po comprendente la vecchia Gallia Cisalpina (da cui le recenti rivendicazioni di certi movimenti politici), e quindi all'incirca il Piemonte e la restante metà della Lombardia, inclusa Milano. Al di fuori del sistema regionale esisteva poi un'altra area, detta Ager Gallicus, corrispondente alla parte alta delle Marche, con Pesaro e, ovviamente, Senigallia, il cui nome ne ricorda l'originaria appartenenza ai Galli Senoni. Come ben si vede le regiones, se pure non servono ad amministrare dei territori di recente conquista, non corrispondono che lontanamente alla nostra suddivisione provinciale, e solo minimamente a quella regionale.
I fatti successivi al crollo di Roma non fanno che complicare il quadro, giacché ad una pressoché inesistente suddivisione amministrativa statale (almeno dove lo stato c'era, come in Sicilia) si sovrappose un'ulteriore lottizzazione feudale, sia che fosse araba, normanna o longobarda. L'inarginabile fiorire di strutture organizzative di diritto pubblico configurate con vari nomi ed autorità sempre nell'àmbito del feudalesimo, quali Regni, Contee, Ducati, etc., feudatari del Pontefice o dell'Imperatore, ovvero semplici funzionari di essi, frammentarono a tal punto il territorio da rendere spesso assai più facile il ricorrere alla parallela e stabile suddivisione canonica in Diocesi, a sua volta riferita ad una tarda scelta amministrativa dell'Impero costantiniano, divenuto troppo grande da gestire per la Roma della decadenza. Il sistema diocesano divenne quindi un utile punto di riferimento, e fu affiancato da amministrazioni civili e militari che si succedevano continuamente col mutare delle esigenze e delle dominazioni, ognuna deputata allo svolgimento di determinate attività, fossero esse di polizia, esazione o amministrazione, e senza riguardo per la presenza delle altre. Questa situazione perdurò fino alla conquista napoleonica, quando anche in Italia (ma non in Sicilia, dove si rifugiarono i Borbone difesi dalla flotta britannica, e l'isola si ritrovò divisa in 23 comarche) si applicò il sistema amministrativo francese com'era stato definito per la prima volta da una lettera patente dello sfortunato Re Luigi datata 4 Marzo 1790, recante norme " Sur un Décret de l'Assemblée nationale, des 15 Janvier, 16 et 26 Février 1790, qui ordonnent la division de la France en quatre-vingt-trois départemens". L'esigenza era sorta l'anno prima in occasione della soppressione rivoluzionaria del regime feudale, e prevedeva un ambizioso accentramento di tutte le funzioni pubbliche in capo ad un'unica unità amministrativa locale definita "dipartimento", che doveva trovarsi a sua volta divisa in diversi distretti o provincie, che la medesima legge provvede ad elencare con dovizia di particolari riguardo agli uffici che vi potevano essere aperti. L'idea di fondo, di solito comune ad ogni tentativo di ridivisione territoriale, era quella di razionalizzare la presenza dello Stato, ancora refrattario ad ogni autonomismo, evitando di assecondare il costoso mantenimento di uffici amministrativi e giudiziari in città che avevano perso centralità, o che più semplicemente avevano bisogno di altro. Nella pratica tuttavia l'attuazione di simili propositi si è sempre rivelata eccessivamente gravosa a livello economico e disastrosa rispetto all'opinione pubblica, sempre legata al riconoscimento delle particolarità locali: ad oggi, ad esempio, la città di Modica vanta un proprio tribunale in virtù d'un decreto di Federico IV d'Aragona del 1361, e riferito all'amministrazione giudiziaria nell'omonima Contea. Le prime implementazioni del sistema francese previdero quindi ulteriori e capillari ripartizioni, sicché ci si ritrovava ad avere a che fare con provincie, mandamenti, circondari ed aree comunali di mutevole estensione, il tutto per garantire un minimo di visibilità al paese di turno cui non si potevano più concedere i vecchi privilegi. Nelle Due Sicilie, all'indomani della Restaurazione, per cura di Francesco I di Borbone fu emanata un'importante e corposa legge, datata 12 Dicembre 1816, il cui titolo già lascia intuire una certa volontà di ottimizzazione logistica: Legge organica sull'amministrazione civile. L'aggettivo è assai probabilmente riferito alla mole ed all'inusuale accuratezza del documento, e può essere paragonato all'espressione italica "testo unico": essa conta infatti 315 articoli, organizzati in dieci titoli a loro volta distinti in vari capi, il che la rende certamente più simile ad un vero e proprio codice che ad un comune provvedimento legislativo (si deve dire però che la legislazione borbonica brilla per una particolare attenzione, almeno nell'ultimo cinquantennio, alla chiarezza). Il preambolo chiarisce gli intenti originali della legge e, almeno in linea di principio, non sembra particolarmente propenso ad ammetterne la derivazione dall'esperienza francese, quanto piuttosto da non meglio chiarificate esigenze locali: " L'amministrazione civile, prima base di tutte le amministrazioni dello Stato, e della prosperità nazionale, ha interessato il nostro real animo, disposto costantemente a promuovere ogni instituzione tendente a consolidare la felicità de' nostri amatissimi sudditi. Volendo Noi ristabilire i principi di ordine e di economia che debbono regolarla, fissare i suoi rapporti colle altre amministrazioni pubbliche, e garentire i suoi mezzi che debbono essere interamente consecrati ad aumentare la floridezza dello Stato; ci siamo determinati a promulgare tutte le differenti disposizioni relative all'amministrazione suddetta, che l'esperienza, i progressi attuali della società, ed il ben essere de' popoli che la Provvidenza ci ha confidati, han rese non solo utili, ma necessarie". Per quel che ci riguarda la legge, che può dirsi perfetta perché completa di norme su responsabilità, elezioni, deliberazioni, bilanci e appalti, già prevede una triplice gradazione d'autorità: " L'amministrazione civile de' nostri reali dominj al di qua del Faro è divisa in provinciale, distrettuale e comunale. [...] L'amministrazione civile è nella immediata ed esclusiva dipendenza del Ministro dell'interno" (art. 1). Come ben si vede la gerarchia territoriale, almeno nominalmente, non è identica alla nostra: le provincie borboniche si trovano al livello delle nostre regioni, mentre in effetti assolvono simile funzione alle nostre provincie i distretti, cui ovviamente seguono i comuni. In uno scritto didattico del crepuscolo del Regno, datato 1860 e composto da tal Giuseppe De Luca, ci viene invece chiarito il significato della caratteristica espressione " al di qua del Faro": " Il Reame delle Due Sicilie, ch'è gran parte d'Italia e la più meridionale, è naturalmente scompartito in due, nel Regno di Napoli propriamente detto, ch'è la parte continentale e nell'Isola di Sicilia. Le provincie del Regno di Napoli formano i Dominii di quà del Faro; le provincie della Sicilia, i Dominii di là del Faro" ( Il reame delle due Sicilie: descrizione geografica, storica, amministrativa, pag. 4); si deve precisare tuttavia che l'autore fa qui riferimento ad una condizione ideale: poiché nelle leggi e nei decreti il Re parlava in prima persona (essendo la legge propriamente detta emanazione esclusiva della sua volontà) in concreto bisognava sapere da dove era stato emanato il provvedimento per capire a cosa riferire il "qua" come il "là" rispetto al Faro, ché verisimilmente quello di Messina. Interessante la precisazione " L'amministrazione civile è nella immediata ed esclusiva dipendenza del Ministro dell'interno", in quanto essa mostra senza dubbio che non ci troviamo di fronte ad un riconoscimento delle particolarità locali, bensì ad un nuovo sistema di amministrazione su base territoriale che nell'ottica propria dello stato borbonico poteva esser tale solo in riferimento all'esistenza d'un unico potere, indivisibile ed accentrato nelle mani del Sovrano; l'unico particolarismo tollerato dal Regno fu sempre e solo quello Siciliano, e quindi non si trova a caso la distinzione tra i " reali dominij" al di qua ed al di là, caratterizzato da un autonomismo normativo di cui anzi i monarchi si fecero sempre vanto per ragioni storiche e ideologiche, sicché la Sicilia ebbe sempre un sistema metrico, valutario, fiscale, postale e doganale del tutto diverso ed a volte incompatibile con quello napoletano. Per avere un quadro generale ed esaustivo delle condizioni finali del sistema nell'intero reame possiamo nuovamente rivolgerci al De Luca: " Tutto il regno è diviso in 22 Provincie o Intendenze, e queste sono suddivise in Distretti o Sottointendenze; delle quali 15 Provincie sono ne' Dominii di quà del Faro, suddivise in 53 Distretti, e 7 Provincie sono nell'Isola di Sicilia, suddivise in 24 Distretti" ( Il reame delle due Sicilie: descrizione geografica, storica, amministrativa, ibid.).
Quanto ai singolari nomi provinciali, oggi ricordati solo dalla cartografia e dai notiziari locali, essi sono di origine medioevale: la Capitanata ad esempio era d'originaria giurisdizione bizantina (territorio retto da un Catepano, che sta per sovrintendente), mentre il Principato era riferito al dominio longobardo di Benevento. Del resto anche a livello comunale il quadro era intriso di interessantissimi elementi d'antica origine: il sindaco di Messina era detto Straticò (equivalente dell'italiano stratega, d'origine bizantina), mentre a Catania ed a Caltagirone era chiamato Patrizio; è poco noto, ma la stessa espressione sindaco risale alla Sicilia vicereale. Per certi aspetti, e soprattutto per l'accuratezza e la capillarità dell'intervento legislativo, che lasciava poco spazio ad interpretazioni improvvisate, nelle Due Sicilie il sistema francese fu portato ai massimi livelli, e raggiunse un grado di razionalizzazione che purtroppo verrà vanificato, come molte altre innovazioni, dall'avvento inesorabile della retrograda legislazione sabauda. In particolare la legislazione borbonica è incentrata sulla figura complessa ed inverosimilmente autoritaria dell'Intendente, ruolo in qualche modo assimilabile a quello dell'attuale presidente di provincia, nonostante questa non sia la lettera della legge del 1816, che lo pone come prima autorità, ma dell'intendenza che sta nella provincia: " È stabilita per l'amministrazione di ciascuna provincia una Intendenza, la quale ha un Intendente, un segretario generale, un Consiglio d'Intendenza, ed una segreteria corrispondente. Vi è inoltre in ogni provincia un Consiglio provinciale" (art. 3); " L'Intendente è la prima autorità della provincia" (art. 4). Leggendo con più facilità dal solito De Luca, troviamo le mansioni infinite di questo scomparso plenipotenziario locale: " L'Amministrazione Civile è alla dipendenza del Ministero degli Affari Interni. In ciascuna Provincia presiede un Intendente, in ogni Distretto un Sotto-Intendente. L'Intendente è capo dell'amministrazione nella Provincia, e per gli affari contenziosi è assistito da un Consiglio d'Intendenza. Inoltre l'Intendente è rivestito di molte altre attribuzioni, le quali lo mettono nella dipendenza degli altri Ministeri; ed è il presidente naturale di tutte le Commissioni nella Provincia, sia qualunque lo scopo e la composizione. L'Intendente, alla dipendenza dell'Interno, presiede il Consiglio d'Intendenza per tutti gli affari del Contenzioso Amministrativo. [...] Egli in tutti gli affari di Amministrazione può chiedere il parere dello stesso Consiglio, meramente consultivo. La decisione del Consiglio d'intendenza, e quella dell'Intendente sono sommesse alla G. C. de' Conti. L'Intendente, alla dipendenza del Ministero della Polizia Generale, è nella Provincia il Prefetto di Polizia, e n'esercita le funzioni. Presiede la Commissione d'ordine pubblico, composta da lui, dal Comandante le Armi, e dal Procuratore Generale della G. Corte Criminale. L'Intendente, alla dipendenza del Ministero di Grazia Giustizia, presiede la Commissione Censoria, [...] la quale esamina, censura o loda i Regi Giudici, la bassa Magistratura, ed uffiziali dipendenti; propone avanzamenti, traslocazioni, o destituzioni, ecc. Inoltre eleva i Conflitti di attribuzione e di giurisdizione. Propone, di accordo col Regio Procuratore, e dietro richiesta di parere del Vescovo, il Conciliatore, sulle terne de' Decurionati. L'Intendente, alla dipendenza del Ministero delle Finanze, presiede la Commissione Finanziera. [...] Sopraintende e verifica le Casse provinciali, e fa procedere all'arresto dei Contabili in caso di malversazione. L'Intendente, alla dipendenza de' Rami di Guerra e Marina, spedisce i reclutati per l'esercito di terra, e gli ascritti per la Marina, al loro destino; esercita l'alta sorveglianza per le amministrazioni de' medesimi Rami nella Provincia, e sopraintende a' Commissari di Guerra, delle cui funzioni sono rivestiti i Sindaci nei Comuni. L'Intendente, alla dipendenza del Ministero de' Lavori Pubblici, presiede la Commissione per le Prigioni, sì per l'amministrazione economica, che per la repressiva. Sopraintende alle opere pubbliche provinciali, assistito dalla Deputazione della Provincia, nominata dal Consiglio Provinciale; non che alle opere pubbliche comunali. L'Intendente, alla dipendenza della Presidenza de' Ministri, è incaricato della pubblicazione di Leggi e Decreti, e dà gli ordini per assicurarne l'esecuzione. L'Intendente infine, alla dipendenza del Ministero dell'Ecclesiastico ed Istruzione pubblica, vigila, in concorso del Vescovo, le Amministrazioni Diocesane, e coopera alla attuazione degli ordini degli atti esecutori del Concordato. Presiede, anche in concorso del Vescovo, nelle provincie, a tutt'i rami della Pubblica Istruzione. In conseguenza di quanto precede, l'Intendente è la prima autorità della Provincia, e corrisponde con tutti i Ministeri, e con tutte le autorità di qualunque ordine esse sieno. [...] Il Sotto-Intendente esercita in ogni Distretto le funzioni d'Intendente, ma sotto gli ordini immediati di costui" ( Il reame delle due Sicilie: descrizione geografica, storica, amministrativa, pagg. 269-270). I più attenti avranno notato come le attribuzioni dell'Intendente riecheggino quelle dell'attuale Prefetto. La ragione è presto spiegata: non esistendo, come s'è notato, alcuna esigenza di tutela diretta degli interessi locali (di cui semmai si poteva informare personalmente il monarca per altre vie), derivante soprattutto dalla mancanza d'ogni possibilità di autoregolamentazione che prescindesse dal volere regio, l'unica autorità della provincia non poteva che essere un emissario del Re medesimo, che al suo governo doveva continuamente riferire. Quanto ai comuni, fermo restando quanto detto, essi trovavano la loro ragion d'essere da altra parte, e cioè, oltre che nelle inveterate tradizioni ed in abbondanti privilegi d'antica data che potevano addirittura consistere in vere e proprie deleghe legislative, anche nell'interesse del Sovrano di tutelare i diritti della nobiltà nonché, partim, dell'alta borghesia, dato che il sistema ammetteva solo il ceto nobiliare, e poi in generale quello più abbiente, alle magistrature cittadine. Con l'annessione delle Sicilie all'ex Principato di Piemonte, poi Regno di Sardegna ed infine sedicente Regno d'Italia, fu applicata ovunque la legge sabauda n. 3702 del 23 Ottobre 1859, detta legge Rattazzi, inglobata come allegato in un raffazzonato provvedimento unitario datato 20 Marzo 1865 (n. 2248), in cui tra l'altro con l'art. 4 si decise arbitrariamente di privare Noto del titolo di Capoluogo attribuendolo a Siracusa, che l'aveva perso tempo prima in séguito ad un'epidemia di colera. La legge Rattazzi, che già sembra peccare degli strutturali problemi organizzativi delle leggi italiane, prevede una tripartizione in provincie, circondari e mandamenti, oltre che comuni, cui sembra conferire una fumosa forma di autonomia al pari della legislazione borbonica; a capo del sistema, in una babele terminologica favorita dal continuo altalenare tra espressioni italiane e adattamenti dal diritto classicista francese, si trovava un Governatore provinciale, tosto ribattezzato Prefetto, le cui attribuzioni ricalcano ovviamente quelle dell'Intendente borbonico, pur se con una certa approssimazione ed in un'ottica più attenta alla pubblica sicurezza: " Il Prefetto rappresenta il potere esecutivo in tutta la provincia; esercita le attribuzioni a lui demandate dalle leggi e veglia sul mantenimento dei diritti dell'autorità amministrativa elevando, ove occorra, i conflitti di giurisdizione. [...] Provvede alla pubblicazione ed alla esecuzione delle leggi; veglia sullo andamento di tutte le pubbliche amministrazioni, ed in caso di urgenza fa i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami di servizio; sopraintende alla pubblica sicurezza, ha diritto di disporre della forza pubblica e di richiedere la forza armata; dipende dal Ministro dell'Interno e ne eseguisce le istruzioni" (legge Rattazzi, art. 3). Da notarsi l'espressione " potere esecutivo": ovviamente Rattazzi fece riferimento al principio francese della separazione dei poteri, del tutto ignota al legislatore napoletano. Interessante notare come poiché questa legge non risulta abrogata dai recenti decreti che hanno svecchiato il nostro sistema legislativo, c'è la possibilità ch'essa sia ancora in vigore. La babele amministrativo-territoriale ovviamente continuò anche dopo l'Unità, per nulla mitigata dalla legge Rattazzi e priva anzi della lungimiranza di quella borbonica, aumentando s'è possibile la caoticità del sistema allontanandolo sempre più dall'originale ideale di razionalizzazione amministrativa e giudiziaria: basti considerare come ancor oggi i tribunali siano organizzati in circondari, le corti d'appello in distretti, così come l'organizzazione notarile, e si potrebbe andare avanti passando alle "aree" o "zone di interesse" (variamente denominate ed intese) di Ospedali ed Università, nonché alla dislocazione delle unità di polizia. L'originale aspirazione francese ad un'area territoriale di secondo livello unitaria per ogni tipo di servizio è rimasta quindi quasi del tutto disattesa, il che, se non altro, dimostra forse l'impossibilità strutturale di portare a regime il sistema ovvero, cosa altrettanto possibile se non in vero un altro aspetto del medesimo problema, l'inutilità di fondo d'una simile scelta. A ben vedere il problema dell'opportunità generale delle suddivisioni amministrative francesi riferite alle necessità proprie delle nostre popolazioni era già stato sollevato ai tempi dei Borbone, ed il loro storiografo d'esilio, l'impavido Marchese de Sivo, ne dà un quadro senza dubbio lucido ed illuminante: " Cardine d'ogni governamento è l'amministrazione civile, siccome quella che provvede alla buona vita sociale. V'era la legge di eccezione del 14 dicembre 1816, acconcia piuttosto a idee francesi che a tradizioni patrie, però avea qualche perfezione ideale e molte pratiche inopportunità. In governo assoluto ella dava certe rappresentanze, ond'eran quasi mera forma: rappresentanze municipali, distrettuali e provinciali, poco utili. I decurionati [assessorati comunali, ndr.] ne' paeselli eran d'ignoranti o cavillosi, e riuscivano a dar ritardo o opposizione agli affari. Molti l'altre due rappresentanze lodavano, e accusavano la potestà di non bene contentarle; e smodavan nella lode e nelle accuse; perocchè i consigli provinciali e distrettuali, dagl'intendenti fatti e disfatti, avevano libertà di parola illusoria a giudicar gli atti di quei governatori; nè molto potean sapere e voler fare in quei quindici giorni ch'andavano assembrati nell'anno. Era una chiacchierata. Dall'altra non è vero il governo non li udisse, chè tutte loro proposte giuste venivano accolte; rigettavansi quelle contrarie alla legge ed inopportune. L'amministrazione era sorretta da' consigli d'intendenza; e dov'eran buoni consiglieri ella andava bene, ma i buoni eran rari. Volea la legge fossero possidenti della provincia; ma per favore se ne mandavan di fuori, che non possedean nulla, nè sapean le condizioni e i bisogni del paese. Nondimeno quella legge avea molte parti buone; e si vede che, non ostante suoi difetti, pure in quarantaquattro anni che durò molto ha prodotto" ( Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861, III, §9). Oggi, in séguito all'introduzione dell'ultima Costituzione nel 1948, il problema delle amministrazioni territoriali è divenuto di portata costituzionale nel senso attuale del termine, e risulta cioè imbrigliato all'interno dell'impalcatura offerta dalla carta fondamentale che priva in parte il legislatore delle sue prerogative d'innovazione, aggiornamento nonché materiale invenzione. L'opportunità di assoggettare l'esistenza stessa di questi enti di secondo livello, le cui vicende storiche si sono viste essere fin troppo travagliate, allo stesso regime di sostanziale immutabilità scelto per i principi fondamentali, nonché per le norme veramente strutturali ed imprescindibili per il funzionamento dello stato, è forse discutibile. Il cuore dell'attuale sistema si trova nell'articolo 114 della Costituzione, i cui primi due commi allo stato attuale recitano: " La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principî fissati dalla Costituzione". Questa formulazione, voluta dalla legge costituzionale n. 1 del 2001, afferente una riforma fortemente improntata all'autonomismo locale, si è nettamente contrapposta alla precedente, che semplicemente riportava: " La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni". Come ben si vede la prima versione era in linea con la passata concezione di ente locale, adatta soprattutto al secondo livello, che vi vedeva una semplice suddivisione d'un corpo statale unitario, e non di certo un ente costitutivo dello Stato medesimo. Al di fuori della carta costituzionale l'attività delle provincie è descritta in dettaglio da un apposito testo unico datato 18 Agosto 2000 (n. 267, composto da ben 265 articoli), da cui caviamo questo elenco: " Spettano alla provincia le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei seguenti settori: a) difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamità; b) tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche; c) valorizzazione dei beni culturali; d) viabilità e trasporti; e) protezione della flora e della fauna parchi e riserve naturali; f) caccia e pesca nelle acque interne; g) organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, rilevamento, disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore; h) servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale; i) compiti connessi alla istruzione secondaria di secondo grado ed artistica ed alla formazione professionale, compresa l'edilizia scolastica, attribuiti dalla legislazione statale e regionale; l) raccolta ed elaborazione dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali" (art. 19). Particolare abbastanza divertente per chi come noi ha affrontato una veloce disamina storica della questione, il legislatore si è preoccupato con apposita norma di mantenere in vita, ancorché facoltativamente, i vecchi circondari, che restano quindi come l'araba fenice ad aleggiare qual vago ricordo del tempo che fu: " La provincia, in relazione all'ampiezza e peculiarità del territorio, alle esigenze della popolazione ed alla funzionalità dei servizi, può disciplinare nello statuto la suddivisione del proprio territorio in circondari e sulla base di essi organizzare gli uffici, i servizi e la partecipazione dei cittadini" (art. 21). In verità, a parte questi strani archeologismi, la legge del 2000 per eredità dalla n. 142 del '90 prevede già un'ipotesi di superamento dell'assetto provinciale che poi è stata definitivamente costituzionalizzata, ovvero la possibilità, per città particolarmente vaste che si siano sostanzialmente fuse con i villaggi suburbani fino a divenire una massa sola, di mutarsi, con riferimento a questi, in un ente che funga da provincia, divenendo una città metropolitana (cfr. art. 23 d. l. 267/2000: "[...] Il comune capoluogo e gli altri comuni ad esso uniti da contiguità territoriale e da rapporti di stretta integrazione in ordine all'attività economica, ai servizi essenziali, ai caratteri ambientali, alle relazioni sociali e culturali possono costituirsi in città metropolitane [...] La città metropolitana, comunque denominata, acquisisce le funzioni della provincia; attua il decentramento previsto dallo statuto, salvaguardando l'identità delle originarie collettività locali"). Sostanzialmente i paesi ricompresi nell'area individuata divengono municipi (altro espediente giuridico d'altri tempi: si tratta di località che hanno perso l'autonomia comunale e sono rappresentate da un amministratore), mentre la città capoluogo assume su di sé ogni onere comunale. L'attuale legislazione si trova nel complesso chiarissima a definire i compiti degli enti locali di secondo livello: essi servono primieramente a tutelare le particolarità locali, a gestire il territorio, ad amministrare le infrastrutture idriche, sanitarie e scolastiche ed a garantire l'efficienza dei trasporti; si tratta di attività massificate che possono plausibilmente esser meglio gestite ad un livello superiore rispetto a quello comunale, anche perché richiedono un'organizzazione che deve prescindere talora dai capricci delle varie amministrazioni interessate. Ovviamente gli stessi risultati possono essere ottenuti anche attraverso un'attenta attività di cooperazione intercomunale, come avviene in Sicilia, in cui le provincie sono statutariamente soppresse: quelle attuali, dette non a caso regionali, altro non sono che liberi - a loro dire - consorzi di comuni. Volendo trarre un bilancio sulla base dei pochi dati raccolti, si può certamente affermare che la natura degli enti locali di secondo livello, alias provincie, sia grandemente mutata nell'ultimo secolo, passando da mere suddivisioni amministrativa d'un territorio unitario a vere e proprie autorità locali, capaci di autoregolamentarsi e rappresentare gli interessi e la singolarità delle popolazioni in esse abitanti. L'equazione prefettura-provincia resta tuttavia ancora viva, a segno del fatto che originariamente era il prefetto ad amministrare la provincia: basti vedere come in Valle d'Aosta, essendosi soppressa per esiguità territoriale l'unica provincia, con essa sia disparso anche il prefetto, le cui funzioni sono oggi esercitate dal Presidente della Regione. Resterebbe da capire se le specificità locali necessitino realmente d'una sì grande sovrastruttura, o se essa piuttosto non fosse utile a garantire l'efficienza dell'amministrazione accentrata, mostrandosi goffamente sovrabbondante per i nuovi compiti. Ma questa è una problematica le cui somme possono essere tirate soltanto altrove.
BibliografiaLegge organica sull'amministrazione civile de' 12 di dicembre 1816 - coevo, adespota.
Il reame delle due Sicilie: descrizione geografica, storica, amministrativa - G. De Luca, Napoli, 1860.
Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861 - G. de' Sivo, Roma, 1862.
Lois, et actes du gouvernement - Tome I.er, à Paris, 1806.
La nuova legge comunale e provinciale del Regno d'Italia, Torino, 1865.
Notizie sull'amministrazione augustea in Italia possono essere rinvenute nel III libro della Naturalis Historia di Plinio.