Il blogger e attivista Christophe Ginisty ha ricevuto la proposta di contribuire alla versione francese dell’Huffington Post. Lusingato dall’offerta, ha richiesto informazioni sul compenso. Questa la risposta che ha ricevuto (via Giornalisti freelance):
“Per rispondere alla vostra domanda: l’Huffington Post (versione francese, canadese e britannica) non paga alcuno dei suoi collaboratori… Ciò detto, dovrebbe consentirvi una visibilità maggiore di siti come Le plus (del Nouvel Observateurs) o di Le Lab. La palla adesso passa a voi “
Questo il commento di Ginisty:
Tutto ciò per dirvi che ho rifiutato di tenere uno spazio sull’HP, considerando che non è assolutamente decente lanciare un sito di cui una parte significativa del contenuto è prodotta da persone alle quali è stato chiesto di lavorare senza la minima contropartita
Conoscendo le persone che sono alla testa di questo progetto, conoscendo i loro mezzi e le loro ambizioni, trovo che sia inaccettabile fare un tipo di proposta del genere che disonora la testata.
E’ una chimera quella di credere che il web permetta di lanciare delle imprese che possano infischiarsene delle persone. E’ una chimera anche quella di immaginare che l’informazione possa essere prodotta gratis
L’Huffington Post è proprietà di America On Line, un gigante che non ha bisogno di presentazioni. I ricavi stimati nel 2010 per l’aggregatore fondato nel 2005 da Arianna Huffington si aggiravano intorno ai 30 milioni di dollari quando ha raggiunto il 26 milioni di visitatori al mese. Per il 2012, l’obiettivo è 100 milioni di dollari di ricavi. Si tratta ormai di un colosso, la cui fortuna si è basata non solo sull’innovazione della proposta, ma anche sulla collaborazione gratuita di migliaia di blogger. Un “matrimonio” felice andato in frantumi proprio quando il gruppo è stato acquistato da Aol. I collaboratori si sono presi in giro e sembra abbiano intentato una class action (via StayBehind).
Nel 2012 l’impresa sbarcherà anche in Italia. Una joint venture con il gruppo L’Espresso. Le prime voci parlano di una redazione di soli dieci giornalisti. Per avere un termine di paragone, la versione statunitense ha una novantina di giornalisti fissi e svariate migliaia di collaboratori. Certo, gli obiettivi iniziali forse non saranno ugualmente ambiziosi, ma che un’impresa del genere non possa reggersi solo sul lavoro di dieci giornalisti è intuibile.
Ora: il tema dello sfruttamento del lavoro gratuito on line, soprattutto nella produzione di informazione, è ormai qualcosa di acquisito, quantomeno nel dibattito in rete. Ci sono decine di giornalisti, professionisti e non, che si sono battuti per vedere riconosciuti i loro diritti (anche quelli relativi la gusta retribuzione, chiaramente) in un documento sposato dall’Ordine dei giornalisti. La stessa Repubblica si è fatta promotrice di campagne di informazione per raccontare la “generazione precaria”, gli stagisti a vita ecc.
A questo punto la domanda è d’obbligo: non vorrà il progressista gruppo L’Espresso importare un modello di business basato sul lavoro gratis?