Ella compie nel suo libro, Egregia Guglielminetti, quasi un vergiliato, e conduce il lettore attraverso i gironi di quell’inferno luminoso che si chiama verginità.
È la tarda primavera del 1907, Amalia Guglielminetti conosce Guido Gozzano , già poeta affermato, e il suo essere sprezzante ed ironico nei confronti delle donne che scrivono: Detestabili le donne che scrivono, se scrivono male ci irritano, se scrivono bene ci umiliano.
Ma, quando legge la raccolta di poesie della Guglielminetti “Le vergini folli” ne rimane folgorato.
Anima errante
Se il mio signore segue la sua via
con cuore assorto o con sereno volto,
sol con sè solo crede andar, raccolto
nel suo pensier, senz’altra compagnia.
Ed ei non vede alcuno che lo spia,
passo passo, alla sua mèta rivolto,
alcun che sta del suo cuore in ascolto
e gli parla con tenera follia.
Ecco: al suo piede un’ombra or lunga or breve
accanto o dietro o innanzi a lui cammina,
nè mai la stanca quel suo andar sì lieve.
Essa è colei che troppo sola muore,
è la notturna anima pellegrina
che persegue il suo sogno ed il suo amore.
E “a colei che troppo sola muore, persegue il suo sogno ed il suo amore”, Gozzano invia il suo primo libro di poesia: “La via del rifugio”, che contiene le rime composte fra i venti e i ventiquattro anni, insieme ai suoi complimenti.
Tra i due comincia una tormentata relazione, riportata in “Lettere d’amore”.
Di lei loda i capelli corvini, i suoi bei denti, la bocca: “gli occhi di colei che s’ inchina al despota Signore e gli tende i polsi febbrili e li vede cerchiare, godendone, di catene” ed Amalia ne è affascinata fino a proporgli un incontro:
«Sentite e non spaventatevi. In uno di questi bei pomeriggi di primo autunno mi piacerebbe di venirvi a trovare (…) Il viaggio per giungere a Voi dev’ essere un poco complicato, ma potreste compierne un pezzetto anche Voi – se la vostra salute lo permette – e indicarmi un’ ora e un paese qualunque di convegno».
I due s’incontrano, per volere di lui, in un luogo sicuro: casa sua e in presenza della madre. Più tardi, Gozzano la giudicherà «terribile nemica» e, ancora più tardi, a seguito di un altro incontro avvenuto nel salotto della Guglielminetti scriverà:
«Le donne d’ un fascino spirituale come Voi non hanno il diritto d’ essere belle. Sovente, quando parlate, io dimentico e non seguo le vostre parole, per il gioco attirante delle vostre labbra sane o per la carezza lenta delle vostre ciglia… E questo è male».
Ciò nonostante, nella lettera datata 12 novembre 1907, Gozzano rimprovera la Guglielminetti:
«Non so perché sento che mi andate dimenticando» e subito dopo si abbandona a fantasie su di un loro immaginario incontro: «Allora io – che avrei le vostre mani nelle mie mani – crederei di sognare, e inconscio irresponsabile come in un sogno, mi chinerei sulle vostre dita, salirei lungo le falangi con le labbra, fino a mordervi le vene del polso. Voi mi sollevereste la fronte, dicendomi con rampogna indulgente: Stiamo savi! Ma, per un evento sciagurato, il mio volto sollevandosi si troverebbe all’altezza della vostra spalla; io, nell’ombra, non me ne accorgerei: e credendo di abbandonare la guancia contro la spalliera del divano, incontrerei invece la mollezza d’una trina o il gelo d’una catenella. Istintivamente, sempre come in sogno, la mia bocca si troverebbe dietro il vostro orecchio; alla radice dei capelli fini, e vi morderei alla nuca (il morso è il mio vizio preferito)… »
«Io piuttosto dubitavo di Voi così a lungo taciturno, sognante in solitudine e in oblio…fra la natura e il sogno… È triste invece la mia, la solitudine fra la gente così vicina e così lontana da me, e fra cui è necessario ch’io sia, sempre e dovunque, “quella che va sola” »e in riferimento alle fantasie di lui riferisce: «Se mai avesse dovuto accadere quello che voi mi avete descritto con una finezza di tinte da farmelo pensare già vissuto da Voi nel sogno o nella vita, se questo fosse accaduto, Guido, io non avrei avuto cuore di congedarvi e neppure di imporvi delle condizioni»
E’ evidente il desiderio della Giglielminetti di un rapporto reale e cerca, inizia a reclamare l’impegno di un incontro, che, preso, viene disatteso da Gozzano.
«Mio caro Guido, credo di non aver passato nella mia vita molte mezz’ore più cattive. Devo aver fatto due o tre volte lentamente il giro di quel mausoleo (…) Sentivo la gola chiusa e la lingua arida come se avessi gridato tanto, e mi toccavo le dita nel manicotto sotto un mazzo di viole fresche che avrei volentieri calpestato. Erano le due e mezza (…) Non sostai più presso il mausoleo, nemmeno lo accostai tanto m’era divenuto odioso. Passò un ragazzo con un carretto cantando: “E aspetta il fidanzato”… Allora fuggii davvero umiliata, avvilita, annientata dinanzi a me stessa,pensando di voi tutto il male possibile, soffrendo in me tutto il male possibile. (…) Sono folle, Guido, a scrivervi queste cose, lo so che voi lo pensate. Vorrei che mi vedeste piangere ancora, mentre scrivo, tanto. Neppure il foglietto rosso che mi portava le vostre scuse ha potuto consolarmi. Ho dovuto lasciar sgorgare tutta quell’amarezza accumulata goccia a goccia, minuto per minuto in umiliazione e in tristezza. Ora sto un poco meglio, ma bisogna ch’io non vi pensi, ch’io non mi ricordi per non soffrirne ancora»
Ma la “cosa cattiva” avverrà e Gozzano sarà pronto a fuggire:
« Lasciando Torino ho avuto come un senso di liberazione (…) il desiderio della vostra persona cominciava ad accendermi il sangue con una crudeltà spaventosa; ora l’idea di accoppiare una voluttà acre e disperata alla bellezza spirituale di una intelligenza superiore come la vostra mi riusciva umiliante, mostruosa, intollerabile…Quando l’altro giorno uscii dal vostro salotto con la prima impronta della vostra bocca sulla mia bocca mi parve d’aver profanato qualche cosa in noi, qualche cosa di ben più alto valore che quel breve spasimo dei nostri nervi giovanili, mi parve di veder disperso per un istante d’oblio un tesoro accumulato da entrambi, per tanto tempo, a fatica (…) E nel ritorno (orribile!) verso la mia casa, sentivo il sangue irrompermi nelle vene e percuotermi alla nuca come un maglio, e, col ritmo fragoroso dei vetri, risentivo sulla mia bocca, la crudeltà dei vostri canini. Sono rientrato in casa con un desiderio solo: partire, lasciare Torino subito».
Amalia è affranta, la vergine folle si è donata senza riuscire ad entrare nel cuore dell’amato e come arresa scrive: «Ditemi Voi, Guido, qualche cosa buona, qualche parola di tenerezza, mentitela se non la sentite cercatela se non l’avete ma datemi un poco di questa dolcezza», ma l’addio è definitivo: « …non parleremo della nostra passione e del nostro passato. La passione è un ingombro al nostro cammino di gloria… ».
Amalia non vuole rassegnarsi e ripete a lui appelli : «Non farmi ancora piangere e rimpiangere, Guido»
A questo punto, Gozzano viene fuori allo scoperto, con tutto il cinismo di cui è capace: “ Già altre volte t’ho confessata la mia grande miseria: nessuna donna mai mi fece soffrire; io non ho amato mai; con tutte non ho avuto che l’ avidità del desiderio, prima, ed una mortale malinconia, dopo… Addio, mia buona Amica!».
Non molto dissimili sono le parole di una delle strofe nella Signorina Felicita:
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Così Gozzano intende il gioco delle parti, l’amore gioco di desideri, mentre il suo, il più grande : il bisogno di essere conosciuto e rimanere per sempre ai posteri, la brama di gloria che l’avrebbe tenuto in vita oltretempo con le sue donne mai amate e chiamate Felicita, Carlotta, Cocotte.
Amalia, invece, si avvia verso lo scandalo, narrando storie di eroine sensuali anticonformiste.
Se, nelle Vergini Folli, fanciulle liliali, «inquiete fiamme, chiuse da saggezza d’antiche norme fra leggiadri schermi», socialmente “signorine”, vengono osservate e portate a testimonianza di sua stessa educazione che immancabilmente tradisce per bisogno di profano, mistico, erotismo per, in qualche modo, cogliere da loro la volontà femminile di ribaltare il gioco dei poteri sessuali con l’altro sesso, nelle Seduzioni, insiste sull’ estasi dell’ amore fatale. Le “Seduzioni” e le altre sue produzioni, tra cui “L’amante ignoto” sono ricche di simbologia erotica, di sfrenatezza sensuale, slancio, esibizionismo, ma insieme un bruciante senso di solitudine e di alienazione.
L’ignoto
Io non so chi tu sia. So che una sera
noi ci gettammo l’anima negli occhi,
con l’impeto di chi brama e non spera.
La ripigliammo cauti, quasi tocchi
da un dubbio, e ancor la scagliammo a segno,
come la freccia che dall’arco scocchi.
Senza accostarci, senza altro disegno
che quello di guardarci ebbri d’amore,
ma disgiunti da un qualche aspro ritegno.
Così il male durò. Più tentatore
d’allora, a tratti, il tuo volto m’abbaglia.
Curiosità di te mi punge il cuore,
desiderio di te me lo attanaglia.
Non meno disastrosa deve essere considerata la sua relazione con Dino Segre, alias Pitigrilli, più giovane di lei di dodici anni e che sa sfruttare la fama della poetessa per farsi largo nel panorama letterario dell’epoca. Pitigrilli ossessionato dalla gelosia, dalla incapacità di sopportare la libertà di spirito di Amalia, fa naufragare il loro rapporto. Pitigrilli arriva a diffamare Amalia sulla stampa, fino a definirla “velenoso e inebriante fiore tropicale, quintessenza dell’erotismo, dominatrice di uomini e di belve”
Nell’agosto del 1924 il rapporto con “l’efebo biondo‘, soprannome che lei affettuosamente aveva attribuito a Pitigrilli, termina e Amalia accantona definitivamente l’dea di sposarsi. Se l’amore per Gozzano non è stato corrisposto, con Pitigrilli si trascina per sette anni, con, alla fine, conseguenze dannose per l’equilibrio psichico della scrittrice e spiacevoli questioni giudiziarie.
Con il passare degli anni, Amalia sviluppa una disincatata amarezza ed una marcata ironia che con il passare del tempo caratterizzerà con forza la sua arte. In particolare farà sentire la sua voce nella rubrica “Con mani di velluto“, nel suo libro di sketch “Il pigiama del moralista” e negli articoli di riviste e giornali per cui Guglielminetti collaborava. Nell’articolo “Aridità sentimentale,” Amalia esprime, un giudizio sulla sensibilita maschile della sua epoca:
Se è vero quanto affermano i poeti moderni, questi raccoglitori delle voci disperse, questi banditori dell’anima universale, gli uomini dei nostri giorni non s’innamorano più… Ormai la femminilità non interessa più gli uomini se non dal lato estetico e sensoriale e qualche volta ben fugacemente anche da questi. I languori romantici risuscitano bene ancora per un vano gioco elegante dai libri di poesia recenti, risorgono ombre evanescenti di donne vestite di falbalà e di crinoline quelle che potrebbero ancora essere amate, poiché, a quanto sembra, le donne vive e vere vestite di tuniche parigine o di tailleurs inglesi non possono esserlo più. Ce lo hanno sentenziato i giovini poeti di scuola toscana e piemontese che fanno capo a Guido Gozzano, ce lo hanno proclamato nei loro versi da cui si leva il monocorde lamento, ora inacerbito d’ironia or mitigato di sorriso, ora addolcito di tristezza:
– Non sappiamo più amare! Siamo aridità larvate di chimere! Amiamo solo più le cose che potevano essere e non sono state!(…)
Questi felici giovini cantori del nostro tempo ignorano che cosa sia tremore di commozione e angoscia di desiderio, non sanno l’ansia acerba del dubbio, la corrodente asprezza della gelosia, la febbre mortale delle vane attese, il male divino dell’annientamento passionale. Essi mancano persino di ciò che dovrebbe essere uno degli elementi intellettuali più incitatori del desiderio: la curiosità. L’ignoto dell’anima chiusa non li tenta più col suo mistero perturbatore, l’alba d’amore non agita nei loro spiriti l’attesa del meriggio ardente e della torbida sera. Adesso sono le donne a incuriosirsi degli uomini, e gli uomini si sottraggono a questa specie di violazione con un grazioso e dignitoso riserbo: «Curiosa di me, lasciami in pace!». Quella che Darwin chiama: «la legge di battaglia», cioè la necessità che spetta all’uomo della contesa e della lotta per la conquista e per il possesso dell’oggetto del suo amore, si sarebbe quindi invertita, e quel tal «bipede implume, annoverato fra i primati e parente degli scimmiadi» risulterebbe unico esemplare del regno animale divenuto da predatore, preda.
L’atteggiamento di Amalia provoca clamore, scandalo e in Italia, alla fine, fu certamente più temuta che amata dal pubblico maschile, anche da quelli che nella vita privata sembravano averla amata: l’avevano amata poco e male.
Interviene anche la censura fascista. Nel luglio del 1928 il professor Rodolfo Bettazzi, in veste di Presidente della Lega per la pubblica moralità, denuncia la poetessa Amalia Guglielminetti e l’editore Ernesto Lattes di Torino per la seconda edizione del romanzo “La rivincita del maschio” perchè “estremamente immorale nella trama e nel concetto, e osceno in molte sue parti“. Alla fine i due imputati vengono assolti, ma Amalia deve mettere la parola fine alla sua rivista letteraria “Le Seduzioni” da lei, fino ad allora, diretta e curata con grande perspicacia e coraggio.
Tutto cambia in lei: inizia il suo declino. Amalia, a un certo punto, si isola, è stanca anche di scambi epistolari e durante un colloquio con Mario Gastaldi, Amalia proclama:
Lettere d’amore? Non ne scrivo più. Anzi potrei dichiarare senz’altro che non scrivo più lettere. Ho bandito dalla mia già scarsa attività letteraria la forma epistolare che è la più inutile quando non è la più nociva. Le lettere servono solo a farci una cattiva reputazione presso i posteri…. Eccovi l’ordine dato da me a me stessa: nessuna lettera, a nessuno. Allorché sono costretta a comunicare qualche notizia urgente o importante la sintetizzo nelle dieci parole di un telegramma.
Amalia muore a causa di un incidente, fuggendo durante un bombardamento e, per sua volontà, sulla lapide è scritto: “Amalia Guglielminetti poetessa. Sola visse e sola morì”.