Stefano Ciccone, presidente dell’Associazione”Maschile plurale” scrive un libro interessante sulla questione maschile e le gabbie a cui viene sottoposto l’uomo contemporaneo invitando a sdoganare gli stereotipi sulla virilità che da secoli vengono imposti agli uomini.
“Essere maschi” pubblicato dalla casa editrice Rosemberg &Sellier, è un libro che sfata e cerca di riflettere sui luoghi comuni puntando l’attenzione sulla vera sfida che hanno davanti: uscire dai “gabbie” che hanno impedito agli uomini di mostrarsi sensibili, di essere padri fino in fondo senza sentirsi sminuiti dal lavoro di cura, di amare senza dominare, di riconoscere se stessi al di fuori degli stereotipi della virilità da prestazione o del sesso comprato.
L’autore denuncia la violenza sulle donne che si manifesta soprattutto dentro le mura domestiche, ma rifiuta lo stereotipo del maschio che diventa violento come reazione all’emancipazione femminile che non accetta. Indaga invece sulle origini “culturali” e sociali del desiderio maschile, guarda con attenzione l’evolversi del rapporto tra i generi e propone un diverso punto di vista invitando a cercare una nuova identità appropriandosi della capacità di avere relazioni autentiche e concedersi la libertà di provare tutte le emozioni tradizionalmente definite “femminili” e dunque fino a oggi tabù.
Da Repubblica, l’intervista:
Nuovi maschi, come ridefinire l’identità di genere?
“Innanzitutto è importante conquistare l’idea di un’identità di genere plurale, fluida e aperta alla capacità di ognuna e ognuno di declinarla. Non c’è un nuovo modello normativo da imporre in sostituzione a quello dominante. Sarebbe una nuova gabbia. La mia riflessione non tende a costruire un nuovo modello di virilità, ma a scoprire quanto i poteri, i ruoli di cui hanno goduto abbiano impoverito la vita degli uomini, le relazioni tra loro, la loro sessualità, la capacità di ascoltarsi e di esprimersi. Oggi cresce un desiderio maschile di uscire da queste gabbie. Ma questo processo di cambiamento resta troppo spesso individuale, invisibile, oppure schiacciato nello schema della “femminilizzazione“. Non si tratta di scoprire il proprio lato femminile, ma un diverso modo possibile di essere uomini, una diversa potenzialità del corpo, della sensibilità e dell’esperienza maschile. Oggi molti uomini tentano di inventare il proprio cambiamento, il proprio modo di essere padri, il proprio rapporto col lavoro, l’incontro con la sessualità. Spesso questo cambiamento resta invisibile o viene interdetto dal potentissimo strumento del ridicolo, dell’ironia, quando non del sospetto omofobo di non corrispondere alle aspettative di “virilità”.
Quale opportunità per gli uomini dopo il 13 febbraio?
“Le manifestazioni delle donne hanno posto al centro una domanda e un punto di vista che chiamano in causa soprattutto gli uomini. In gioco non c’era né il giudizio sulla moralità delle donne coinvolte negli scambi tra sesso, denaro e potere col premier, né la difesa della dignità delle donne. (E’ molto facile, per gli uomini ergersi a difensori delle donne o della loro dignità: è un modo per non mettersi in gioco e per confermare il proprio ruolo). In gioco era la possibilità di pensare un’idea di libertà nella sessualità che non fosse ridotta alla libertà di vendere e comprare. Il modello berlusconiano propone a tutti noi l’ipocrisia della falsa alternativa tra il giudizio moralistico pubblico e l’opportunismo indifferente nel privato. E’ l’ipocrisia che vuole condannata qualunque differenza rispetto all’ordine dominante e invece possibile qualunque trasgressione nei modelli tradizionali. Se come uomo resti nel recinto della virilità tradizionale, puoi spassartela disponendo delle donne nella misura del tuo denaro e del tuo potere. Ma è una sorta di libertà vigilata. Per superare questa alternativa è necessario riconoscere la sessualità come questione politica. Nel senso che deve poter essere possibile costruire collettivamente e individualmente una riflessione, una pratica sociale che veda anche le relazioni tra i sessi, i ruoli sessuali e i modelli attribuiti a donne e uomini come un terreno di critica, di cambiamento e trasformazione. Il contrario del giudizio moralistico che frena ogni cambiamento. La mobilitazione delle donne, che forse ha anche contribuito a cambiare il clima nel Paese e che è cambiata grazie alla discussione che l’ha preceduta liberandola da tante ambiguità, chiede agli uomini di andare oltre la “solidarietà” o l’assunzione di responsabilità. Chiede agli uomini di rompere una complicità e di esprimere il proprio desiderio di cambiamento e di costruire parole per esprimerlo, per farlo diventare un processo collettivo visibile socialmente”.
Violenza contro le donne, lei giustamente parla di spostare l’ottica sui maschi violenti, è così?
“Sì. Tutte le campagne contro la violenza sulle donne hanno due caratteristiche: di rado compaiono gli uomini e le donne rappresentate sono sempre schiacciate nel ruolo di vittime. Ritratte in un angolo, sovrastate da un’ombra minacciosa. Per non parlare delle strumentalizzazioni che alimentano ingiustificate campagne di paura dei migranti. Una percezione distorta. Le donne vengono rappresentate come soggetti deboli che necessitano di tutela e protezione (e sappiamo quanto spesso, questa tutela, esercitata da un uomo, diventa controllo) mentre gli uomini restano invisibili. Più enfatizziamo l’emergenza, più la allontaniamo da noi: l’attribuiamo agli stranieri, ai maniaci. Eppure è noto ormai che la stragrande maggioranza dei casi di violenza avviene nelle famiglie, nelle coppie, nelle relazioni di lavoro, nei gruppi di amici. E’ qualcosa che riguarda la nostra normalità, ma che non vogliamo riconoscere. Noi crediamo che questa violenza non sia un dato naturale ma riveli una miseria delle relazioni, delle forme della sessualità maschile dominante. Questa miseria non è un destino e tanto meno una radice naturale originaria da civilizzare. Il controllo e il dominio sui propri istinti, sulle proprie emozioni, sulle espressioni della corporeità è il modello su cui è edificata la virilità e la gerarchia tra i sessi. Da quando ci dicono di non piangere per dimostrare di non essere delle femminucce a quando ironizziamo sull’emotività femminile. Scoprire che tutto questo è il segno lasciato da una cultura basata sul controllo, sul dominio e la gerarchia tra i sessi è un modo non per colpevolizzare gli uomini ma, al contrario, per aprire uno spazio di cambiamento basato non sul volontarismo né sul senso di colpa, ma sul desiderio di libertà.
Vi consiglio di acquistarlo perchè è interessantissimo, io l’ho fatto, non vedo l’ora di leggerlo.
Mary