Essere-nel-mondo è un concetto fondamentale introdotto da Heidegger nella sua analitca esistenziale (cfr. Essere e tempo) e sostanzialmente si può tradurre nella "modalità d'essere dell'uomo in quanto essere che vive attraverso un'apertura originaria verso un non-sè che si chiama 'mondo'". Definizione alquanto complessa, semanticamente piena di apparenti ridondanze, ma assolutamente pregnante e dotata di un potere descrittivo del suo oggetto, che difficilmente può trovare una migliore collocazione filosofico-psicologica.
L'uomo è un essere aperto. L'uomo è essere-aperto, ovvero, l'uomo è tale primariamente (questa precisazione è d'obbligo) perchè esiste (è) un suo complemento con il quale egli instaura un regime di scambi continui, alcuni dei quali si basano su una significazione simbolica (cioè, rifacendoci all'etimologia della parola, sym-bàllein, sono funzione di un'unione che avviene in modo diretto tra l'oggetto A e l'oggetto B, i quali non si sottraggono allo scambio se non per "motivazioni" interne), mentre altri sono mediati da un significante "superiore" (come il valore economico) che "media" ogni rapporto e riduce la transazione ad un'equivalenza funzionale o strutturale.
Ma l'uomo, in quanto essere microcosmico (ovvero dotato di una sua interiorità che, per semplicità di nomenclatura, definiamo "Sè"), è anche un essere chiuso o, perlomeno, "chiudibile". La ragione di questa dualità, che rende l'uomo archetipicamente collegato all'immagine di Giano bifronte, è da ascriversi alla necessità di poter "essere" (narcisticamente parlando) seppur ciò avviene perchè uno stagno ne riflette l'immagine. Ciò che si pro-ietta all'esterno, torna ri-strutturato all'interno e lì, volente o nolente, deve soggiornare sino al momento di nuova e-iezione verso il mondo.
Tutto ciò non deve spaventare, ma sicuramente far riflettere: quanto si può essere in-dividui (cioè, indivisi) se la relazione tra le parti avviene attraverso la mediazione di non-essere che è il mondo? Non c'è da stupirsi, a tal proposito, se la storia ha permesso la nascita di svariati testi iniziati in periodi molto lontani dai nostri e, al contrario, in quell'oggi che è l'unico "mondo" ove il nostro essere-nel-mondo vive, si riscontrano sempre maggiori difficoltà a raggiungere un'individuazione strutturalmente forte e duratura.
Il passato (remoto) era un "luogo" ove l'apertura consentiva scambi ben inferiori a quelli che la mondanità odierna favorisce e fomenta: non siamo in un civiltà dell'esteriore, ma piuttosto stiamo diventando, con la licenza di Heidegger, esseri-più-aperti rispetto a quanto lo eravamo qualche tempo fa. Il dare per ricevere, senza la ritenzione finalizzata ad un'elaborazione autonoma (e quindi, sempre usando la nomenclatura di Essere e tempo, aut-entica) è divenuto prassi per giustificare l'eccedenza di socialità che, lungi dall'essere un bene comune, crea solo ridondanza negli scambi e quindi impoverisce i soggetti.
L'auspicio che quindi l'umanità dovrebbe formulare per il proprio futuro non è tanto quello di un'apertura ove l'indiviso scompare nella nebbiosa indifferenza del "comune", ma piuttosto un ritorno esistenziale ad un vero bilanciamento tra l'essere-nel-mondo e l'essere-in-sè, affinchè realmente l'uomo possa (ri-)trovare un'origine dalla quale trarre le forze per riunificare il suo Sè e riscoprire l'unico valore concreto che non subirà mai una transvalutazione: l'essere.