Ero anche io una di loro. La sono stata anche io. Un mito, era il mio mito. Quella terra, lontana, con un oceano che ci separava. Mi sfuggiva, raccoglieva e vedeva nascere i miei sogni. Erano così lontani. Era come se non fossero più miei, li lasciava nascere e li vendeva a qualche altro coetaneo. Le mie speranze. Guardavo video, mi informavo, speravo, che un giorno, un giorno anche io sarei riuscita ad andarmene, via, lontana, dal paese dalla divertente forma dello stivale, raggiungendo le nostre stelle e strisce. Lo avevo idealizzato. Non ascoltavo nessuno, e niente. Avevo ragione io. Loro avevano torto. Là era tutto perfetto, qui tutto faceva schifo. Ed era un obiettivo, una ragione per cui sorridere, un motivo per cui lottare, difendendo le proprie tesi. Progettavo, attaccata allo schermo freddo di un computer, scrivevo giù indirizzi, nomi, cose, case, posti da vedere, assaporare, annusare. Cose da fare. Cose da vedere. Cose da vivere, su foglietti che mi capitavano sotto gli occhi per caso. Mi bastava una penna. Ed era come essere già là. Era come una droga, una sostanza composta da tante piccole particelle coloratissime, ognuna indispensabile, ognuna fondamentale per la composizione di quelle cinquanta stelle, quelle tredici strisce. Per una buona parte, costituita da adolescenti, quelle non sono semplici stelle, non sono solo forme geometriche, quelle non sono solo strisce. Piangono e si commuovono all’udire dell’inno americano. Ridono e non conoscono, quello del «bel paese». Ci bombardano, ci colpiscono, ci fanno credere che loro sono perfetti, che tu vuoi davvero vivere come fanno loro. Nascondono le loro debolezze, urlano i loro pregi. Attaccano quando il mondo sbaglia. Pestano e negano, quello che loro hanno sbagliato. La crisi? Quale crisi? Loro stanno benissimo. Loro vivono felice e contenti (le statistiche dicono chiaramente che su novantanove americani vi è un ricco). Bugiardi. Ero partita, armata di sorriso, carica di energia, con una sola valigia (un sogno da primo immigrato del 1852), convinta, che non avrei mai fallito. Che tutto sarebbe andato bene. Le mie aspettative erano degne delle cinquanta stelle.
E poi quando atterri ti rapisce, riesce a catturarti, se rimani in superficie. Se quello che vuoi è solo apparire, divertirti, rimanere intorno a rapporti di conoscenza a livello di saluti, come stai, tutto bene grazie, andiamo a bere un caffè? Ci vediamo la settimana prossima. E poi non ci vedremo mai più. – ecco. Allora benvenuto. Questa è la tua terra. Vivici da turista. E la amerai per sempre. Vivila. Vivila come vivi nella tua casa, con la tua famiglia, con i tuoi amici, dove sei inserito, e qui sei solo uno dei tanti. Un nessuno. Una macchiolina messa in mezzo ad altre mille. Non ti conoscono, fingono l’interesse, fingono di ascoltarti, fingono di avere qualcosa da dirti. Fingono. Tu non gli interessi. Non sei nato in questo paese, quindi sei automaticamente o un essere inferiore, o una momentanea attrazione. Destinato a finire. Ti ascoltano per i primi quattro minuti, perchè hai nominato il «bel paese». Hanno tutti la stessa espressione quando lo si nomina, tutti le stesse parole pronte ad uscire fuori: ci sono sempre voluti andare, nello stivale (ma ancora non ci sono andati), oppure “OHMIODDDIO sei italiana?? Che invidia”. Non credetegli. è una balla. A loro piace essere stelle e strisce. A loro piace il loro paese. A loro piace vendersi come esseri di natura superiore. Il potere che hanno nel farti sentire inutile quando correggono il tuo accento. O una parola che hai detto. Quando dicono che quello lo dicono nel Regno Unito. Loro non lo usano. Quando ti massacrano con commenti su cose che i loro telegiornali riportano sbagliate, quando ti puntano il dito contro, perché «voi italiani siete tutti uguali e pigri» è un po’ generico, detto così. Quando attaccano gli inglesi, perchè guidano dal lato SBAGLIATO della strada, non a destra come ho tentato di dire. Quando uccidono a bastonate quella parte che si sta facendo un mea culpa. Quel piccolo numero che cresce dentro al paese, quel piccolo numero che ha realizzato gli sbagli della sua terra. Non vi sto dicendo che è un paese da non amare. Non vi sto dicendo che il mio amore cambierà dopo la mia esperienza. Non vi sto dicendo di smettere di raggiungere il sogno. Solo occhio critico. Cuore un po’ più socchiuso. Quando siete qui potreste ritrovarvi a dire frasi, con fare schifato, come «ma da noi non si fa…», «ma da noi non esiste!», «ma noi non facciamo così». Lo chiamano schock culturale. Io lo chiamo inizio di un lungo procedimento chiamato rivalutazione del proprio paese di origine. Potreste scoprire che alla fine non è poi così male, il caro vecchio Stivale. Quindi per questa volta devo contraddire il Genio: non siate affamati. Non siate folli. O perlomeno andateci piano. Niente abbuffate. Niente pazzie.
Laura Pioli
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