Quest’estate, strano ma vero, ho guardato pochissima tele e ancora meno serie tv. Non che non mi faccia bene, sia chiaro. Significa che ero in altre faccende affaccendata. E ne sono felice. In questa settimana di stasi, però, ho ripreso le vecchie abitudini. E ho finito di guardare la seconda stagione di Homeland che avevo messo in pausa mille mila settimane fa. E già che c’ero ho guardato anche qualcosa di nuovo. Ma andiamo con ordine.
Homeland è un thriller, uno spy, un drama, chi più ne ha più ne metta. Ma l’unica cosa di cui sono sicura è che si tratta di una serie ficherrima. Da outstanding.
Ok, io potrei anche chiudere qui perché dopo “ficherrima” e “da outstanding” se non è chiaro il messaggio io non lo so se riesco a farvi capire che dovete vedere ‘sta serie qua. [Carrie mi ha influenzato con tutta quella sua agitazione]
Comunque.
Di che parla Homeland?
Ma Homeland è anche la storia del sergente Nick Brody, scomparso in Iraq 8 anni fa durante una missione e ritrovato in un bunker sotterraneo in uno dei rifugi legati alla figura di Abu Nazir. Il collegamento per Carrie è quasi istantaneo. E Brody, in effetti, sembra non raccontarla giusta fin dall’inizio. Per la sua famiglia è ormai uno sconosciuto e il suo ritorno nel mondo e alla vita “normale”si rivelerà difficile da coniugare con quello che ha passato e con i cambiamenti inevitabili che segnano la sua persona. Brody dovrà riscostruire una vita intera, ma dovrà anche mantenere in piedi un castello di bugie e segreti di cui solo Carrie sarà in grado di venire a capo.
Homeland è una storia dai tratti distopici, rappresentazione estrema di quel paese che sono gli USA pieni di paure e continue minacce, vere o presunte che siano, sempre pronta a gridare all’attentato, sempre pronta a scendere in campo per difendere “giustizia e democrazia”. Ma quello che si nasconde dietro ai discorsi dei politici e alle notizie sensazionali del tg non è realmente dato saperlo e forse nessuno vuole smascherarlo davvero. Sarà la contrapposizione tra Carrie e Brody, il loro rapporto intricato e contorto, dove tra vittima e carnefice vi è un continuo scambio di pulsioni ed emozioni, non ultimo l’amore, a mettere le carte in tavola. E, tuttavia, il colpo di scena è sempre dietro l’angolo.
Il primo pensiero che ho avuto, prima ancora che vedessi il primo episodio, è stato: “CIA, Medioriente, Terroristi = Americanata” e ho deciso di iniziare a vederlo solo perché tutti me ne parlavano bene.
Poi dopo 10 minuti ho capito che, anche questa volta, mi ero sbagliata.
Quella che all’apparenza può sembrare una serie che inneggi al valore e coraggio americano (che è poi quello che fanno tutte le serie made in USA #diciamocelo, chi più chi meno), è in realtà una storia che rivela molti dei chiaroscuri caratterizzanti il sistema di difesa americano e il suo mondo politico. Interessi economici, cospirazioni, tornaconti personali, desideri di ascesa sulla scala sociale, sete di controllo e potere… la mistificazione della verità rende la missione di Carrie un vero e proprio ginepraio e mentre la giovane analista della CIA cerca in tutti i modi di difendere quella che crede essere la sicurezza del suo Paese, ben presto si renderà conto di quanto la sua stessa nazione sia causa dei suoi mali e di quanto in gioco ci sia la sua stessa sicurezza e il suo benessere. Brody diventa così la spia da inseguire ma allo stesso tempo un piccolo ingranaggio in una macchina che si rivelerà molto più grande di lui e impossibile da tenere sotto il suo controllo.
Ci si inoltra in questo intrigo di alto profilo, tifando per Carrie, adorando Saul – vera figura paterna per Carrie e personaggio simbolo di quella saggezza che tutti gli altri sembrano aver perso – e guardando con sospetto, con odio, con rabbia, ma anche con pena e un’inaspettata simpatia, Nick Brody, un miscuglio di sentimenti che lascia storditi e alienati.
La prima stagione è un’esplosione di eventi, vulcanica fucina di segreti, rivelazioni e scene ricche di suspense. La seconda parte in maniera più raccolta, mantiene un basso profilo pur annidando tra le sue pieghe i semi di quel clamore e di quell’azione che si riveleranno di episodio in episodio fino al “botto” finale.
In conclusione, una serie di alto livello, grazie a un tessuto narrativo accurato, degli attori bravi e capaci di dare vita a sentimenti ed emozioni più che reali e condivisibili, una scrittura di qualità. Arrivata alla fin della seconda stagione non vedo l’ora che parta la terza il 29 settembre. E ho già classificato Homeland come una delle migliori serie del momento. Vedere per credere.
Dato che, come ho scritto su, ho avuto pochissima voglia e poco tempo per stare al pc, solo da poco ho ricominciato a guardarmi in giro nel mondo delle serie tv. E grazie a tutti i cari blogger con la mia stessa addiction, ho scoperto che quest’estate i “produttori di serie” non sono stati di certo con le mani in mano. Anzi, hanno sfornato molte serie, tra cui una in particolare ha risvegliato il mio interesse a partire dal titolo: Orange Is the New Black.
Che fosse ambientata in una prigione era stato fin da subito chiaro (l’arancione è il colore delle divise dei detenuti #Americadocet) e questo particolare mi aveva già parecchio intrigato. Sono ancora agli inizi ma devo dire che (già) mi piace.
La serie è tratta dal romanzo di Piper Kerman, la quale scontò realmente una pena di tredici mesi in una prigione federale per lo stesso reato della protagonista. La sua storia ha dato l’idea a Jenji Kohan (Weeds? That’s it) per raccontare finalmente qualcosa di nuovo e portare davanti alle telecamere argomenti che non appaiono mai in tv. E infatti la serie non è andata in onda su nessun canale, ma è stata diffusa tramite uno streaming legale da Netflix. Ma cosa rende Orange Is the New Black così particolare?
Non è una vita facile quella in una prigione federale e alcune delle situazione rappresentate in questa serie sono dei veri e propri incubi. Ma conoscerle è importante e ancora una volta l’ironia si rivela essere il mezzo adeguato per parlare di realtà scomode spesso taciute, attraverso una caratterizzazione dei personaggi solo a tratti grottesca e mai troppo lontana dalla realtà e una vis comica decisamente arguta nei protagonisti senza sfociare nella semplice e sterile battuta da sit-com.
Orange Is the New Black è una serie fatta bene, una scrittura attenta e una realizzazione meticolosa, una produzione che non lascia indifferenti e che dimostra che si può fare tv di qualità anche con argomenti scomodi e pur non andando davvero in tv. La seconda stagione, si dice, sia già in fase di lavorazione e io vi consiglio caldamente di recuperarla.
Bon gente, per oggi è tutto. Qui l’estate continua nonostante ferragosto sia ormai passato. Il caldo e l’accidia estiva ammazzano la mia volontà di scrivere, ma chi mi segue su facebook e twitter sa che ho sempre una parola buona per tutti voi. A settembre, spero, si torna carichi. E comunque io non vi abbandono. Oh no.
A presto fragolosi!