Teatralnaja - Mosca - giugno 2012
Eh già. Ho nostalgia della Russia. Detta così è un po' banale, ma, credetemi, quando mia moglie ha approfittato di una occasione e con una amica ha fatto un giro da quelle parti, ho provato una malinconia profonda. Il senso sordo che ti viene dentro quando pensi a qualcosa che hai perduto ormai irrimediabilmente e che ancor di più si acuisce se butto un occhio alle immagini che si è portata a casa. Certo mi raccontano di una Mosca molto diversa, più ricca e colorata, che si sforza in ogni modo di far dimenticare il grigiume sovietico, ma che non riescono a cancellare quel senso sfumato di malinconia nordica e orientale allo stesso tempo, di chi non vuole scordare nessuna delle sue radici, che vuole essere diversa ma uguale, moderna ma legata ad un passato mai rinunciato e ben presente nei suoi geni. Eccomi ancora là a scendere le lunghe scale mobili della metro, arrivando nello splendore delle volte della Teatralnaja o della Majakovskaja, dopo essermi ben guardato attorno per non contravvenire alle precauzioni suggerite dall'amico Eugenio, sempre preoccupato, forse troppo, della mia incolumità. Erano tempi difficili, ma in fondo non così pericolosi come ti raccontavano e ti potevi mescolare senza problemi alla folla di giovani ragazze nei leggeri vestitini estivi che si sedevano sulle dure panche della metro con un libro in mano. Domeniche estive meno affollate dei giorni di lavoro, mentre guardavi le stazioni passare, Kurskaja, Baumanskaja, attenzione a Elettrozavodskaja, l'ultima prima di Ismailovsky Park.
Scendevi mescolandoti alla folla di gente che sciamava nei prati nella forte luce estiva, con cartocci di pesce secco sotto il braccio o pacchetti che male nascondevano cetrioli e pane nero, da sbocconcellare sull'erba del parco. Passeggiare senza una meta precisa, guardare le mille cosucce sui banchetti, il blu delle ceramiche di Dje'l, il fondo nero del legno dipinto delle spille, i colori accesi delle stoviglie laccate, le rose degli scialli, le figurine precise e microscopiche delle scatole di Palech, la trasparenza dei cristalli, la geometrica perfezione dei colori dei tappeti che copriva la sommità della collina. Ecco là un vecchio triste che vende spillette e medaglie di un passato sovietico forse rimpianto, qui una babuska grassa e paciosa con le sue matrioske in scala di grandezza e il prato dei pittori che espongono le loro tavole povere e di fortuna, i tavolini pieni di militaria, dalle volonterose maschere antigas, ai visori notturni, alle bussole, mescolate con i falsi zippi americani. Magari mi compero un altro Kommandirsky da regalare ad un amico, ma sì, questo dei carristi; no grazie niente caviale, Eugenio mi ha detto di stare attento che è tutto polistirolo colorato di nero, meglio andare da quel cameriere amico dell'Ukraina che se lo frega in cucina e lo rivende a 10 dollari la scatoletta. Me ne tornavo verso sera con qualche pacchetto in mano avvolto in una vecchia Pravda. Ancora due passi sul Kalzò per arrivare a rifugiarsi, passata l'anonimo stanzone della hall del vecchio Pekin, nelle sua camere tristanzuole dagli alti soffitti, che sapevano di sovietica muffa, sotto gli occhi annoiati e persi nel vuoto della dejurnaja del piano. Mi dicono che adesso è tutto rinnovato ed è ormai un albergo del nuovo lusso moscovita. Il tempo delle mie estati sovietiche è davvero perduto, senza ritorno.
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