«Ma di questa vita menzognera/cancella l’untuoso rossetto/ [...]/e anche non vedendo l’avvenire,/di’no ai giorni del presente» – Blok
Che cos’è la vita, che cos’è il teatro?
In molti, se poniamo queste domande, ci sorridono e non rispondono. Magari in quell’inarcare le labbra c’è anche una minima tenerezza indulgente, a tratti compassionevole, di quella compassione che si riserva ai bambini curiosi e giustamente invadenti. Ma in molti sorridono e non rispondono e forse pensano già ad altro nel tempo che si dilata mentre quella mezzaluna solleva appena gli zigomi.
Quando Giuseppe Montesano scriveva “Di questa vita menzognera” (prima edizione del 2003 ne “I Narratori”, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano) componeva narrativamente un profetico “meccanismo metamorfico”: i suoi personaggi sono come rocce che nello strato più profondo del sistema sociale si frantumano e si rigenerano arrivando sul punto di fondersi completamente per poi riaggregarsi compatte. I personaggi di Montesano sono ontologicamente metateatrali e, dopo poco più di un decennio, appaiono già prefigurazioni di un presente che incombe minaccioso e terribile.
La potente famiglia di imprenditori volgari e ignoranti, i Negromonte, spadroneggia su Napoli con il beneplacito dei piani alti ed ha intenzione di creare un museo perpetuo in cui la gente reciti il proprio ruolo in una dimensione storica anacronistica; la Neapolis antica, la città del passato che giace sotto quella contemporanea, deve essere completamente ricostruita e trasformata in un parco tematico: Eternapoli.
Montesano entra dalle porte della villa settecentesca abitata da queste presenze a tratti fantasmagoriche, Montesano entra proprio dalle porte che il pater familias pretende sempre aperte e in una dimensione corale estrema ci mostra attraverso gli occhi del giovane Roberto – che fa da discepolo e segretario all’intellettuale invischiato negli affari della famiglia – tutta la miseria umana, etica e morale di questo consesso di feroci assassini.
Che cos’è la vita, che cos’è il teatro?
Con “Eternapoli” Enrico Ianniello trasforma in atto, da regista e da attore, il potenziale processo cognitivo ed affettivo che Montesano ha espresso con “Di questa vita menzognera”. La capacità del regista di plasmare il magma narrativo in azione scenica è sorprendente: con consapevolezza e rigore Ianniello costruisce un esordio accattivante, potente, per poi dedicarsi a mostrare di volta in volta, interpretando ben undici personaggi, i vari piani prospettici che compongono il raggelante disegno drammaturgico. Gli occhi dell’attore penetrano quelli del pubblico, non esiste quarta parete, il gioco è scoperto e proprio per questo funziona magnificamente.
Il ritmo è serratissimo, martellante e non concede spazio ad esitazioni, si deve cominciare subito a seguire i personaggi cui l’attore presta il corpo: le caratterizzazioni sono perfette, mai caricaturali, come quando Ianniello dà corpo a Carlo Cardano spostando appena il peso ora su una ora sull’altra anca, e dilatando aristocraticamente la parlata: l’intellettuale fallito che si specchia nella società e che disgustato si riconosce nel riflesso ansante e marcescente si impone, in maniera apparentemente paradossale, con estrema leggerezza. Allo stesso modo il regista-attore definisce il vecchio e rauco pater familias, Ferdinando lo spocchioso, il Calebano cinico ed inarrestabile e gli altri.
Enrico Ianniello, trasformandosi in “persona” – nel senso etimologico del termine - riesce a rendere con sensibilità commovente i personaggi femminili modificando la voce e le intenzioni con studiata precisione: la succube Miranda, la disillusa – a tratti retorica – Bianca, la manipolatrice Amalia e di ciascuna di queste donne l’attore lascia intravedere celato oltre il velo squarciato dalla sua interpretazione, una serie di emozioni, comportamenti, pensieri e costrizioni.
Quando una sola coscienza sa farsi attraversare per poi risplendere così del senso profondo delle parole, allora questo non può non essere che teatro: ogni personaggio ha il proprio spazio ed è necessario all’altro, ogni personaggio esiste solo in relazione all’altro: l’attore accoglie questa molteplicità e coralità senza farsi sopraffare e senza sovrapporsi riuscendo così a porgere al pubblico un ritratto di famiglia e di società assolutamente materico e conturbante.
Uomo di teatro, Ianniello porge anche il senso di un fulminante hic et nunc: si può rendere attraverso la propria pelle e la propria voce un punctum temporis che si espanda nel tempo in ogni direzione senza obbligatoriamente precipitare nella volgarità o nell’oscenità. Per rappresentare una realtà distopica, infatti, Ianniello mantiene la sua delicatezza anche nei momenti più crudi, perché il teatro è rito e nel rito bisogna lasciare che la disarmonia ed il suo opposto si esprimano per la loro forza intrinseca. Quando lo spettacolo termina si desidera che il qui ed ora ritorni per ascoltare ancora, tra i tanti, il personaggio-figlio che si ribella alla famiglia: Andrea ed il suo pianto e la voce che si incrina e viene scossa dalla consapevolezza di avere bisogno di altre risposte.
La sagacia e la ferocia dell’immediatezza che Ianniello mantiene dall’esordio sino all’acme della rappresentazione sono davvero strumenti potenti nelle sue intenzioni: il regista è capace di condurre lo spettatore e di mantenerlo vigile assorbendolo nell’ironia drammatica per poi spiazzarlo gettandogli contro – durante la scena del pranzo pasquale – come se gettasse sale su ferite aperte, il putrescente ed incancrenito corpo dei Negromonte.
Sul palco solo una sedia che diventa ora un trono, ora uno sgabello scomodo ed ingombrante – a seconda del personaggio che vi si siede – e da quella sedia, tutta Napoli viene coinvolta dalle mire capitalistiche della famiglia: la solitudine individuale dei singoli personaggi – e le loro azioni che finiscono per ripercuotersi sulla società intera – vengono filtrati attraverso il corpo dell’attore e si fanno puro colore sullo schermo che domina il fondo della scena: il rosa del viaggio onirico di Cardano che sogna avvolto dal sottile fumo delle sue sigarette all’oppio, il rosso del sangue dei Negromonte che è una maledizione, il verde di un cartina topografica, il giallo e poi un blu ideale nel finale, un blu come acqua o cielo per riempire gli occhi, un blu come quello di Klein che nella seconda metà del Novecento cercava la tonalità che assurgesse la terra al cielo. Su quello stesso schermo il regista ha scelto di proiettare “Children of a Lesser God”, un’opera di Matt Collishaw estremamente significativa che ben si inserisce nel piano drammaturgico e rimanda all’allegorismo del testo, così come le sinfonie di Mahler e l’elettronica di Deadmau5 contribuiscono a creare l’atmosfera sospesa e carica di tensioni.
«Saremo giudicati sull’amore?» chiede Roberto, personaggio e spettatore allo stesso tempo. Ma che cos’è l’amore se ogni concetto diviene allo stesso tempo asseribile e confutabile, se bene e male non esistono più nemmeno come categorie puramente teoriche e vengono sostituite da entrate ed uscite e solo ciò che è acquistabile e consumabile si può riconoscere come buono e giusto?
Che cos’è l’amore se la pietà filiale, materna e paterna, se la bellezza, se la letteratura, la storia, l’arte, l’umanità si possono comprare e vendere come un orologio o una lattina di bibita – purché ci sia dietro un marchio economicamente fruttuoso – e si fa spazio ad un’era della felicità obbligatoria in cui tutti sono estranei da sé e dagli altri, dal tempo e dallo spazio e l’unico presente possibile è una autocondanna all’eterno ritorno dell’assenza di significato di ogni essenza?
Cardano, in uno dei suoi lucidi deliri, fa riferimento alle rose. All’aroma stordente e al sapore di sfacelo dei petali grassi. Il teatro di Enrico Ianniello, attore generoso, è come le rose: le rose che dopo avere catturato con la loro semplicità lo sguardo di un passante con le loro spine naturalmente si difendono quando questo le coglie, e quelle spine – una volta che si conficcano un poco nella carne – il passante impara ad amare, come la tenerezza dei petali e lo sfacelo del bocciolo appassito. Essere feriti dalle spine è un dolore necessario, ma cogliere e conservare il fiore diventa un’intima gioia perché quello che rimane è la bellezza della vita: il dolore per una spina dura poco, ma dura il tempo necessario perché si diventi consapevoli di sé e si impari nel presente a vivere in mezzo agli altri, con gli altri.
Che cos’e la vita, che cos’è il teatro?
Chi sorride e non risponde forse non ha il coraggio di dirci che il teatro si fa solo vivendo e che per vivere bisognerebbe tornare a fare il teatro, per riflettere e insieme capire il nostro tempo perché è vero che «la libertà vuol dire sforzo»: “sforzarsi” è un dovere.
«Saremo giudicati sull’amore?»
La risposta ha la stessa molle potenza del suono del mare: e così sia. E così sia.
Lo spettacolo prodotto da Teatri Uniti e dal Teatro Franco Parenti ha debuttato in prima nazionale al Teatro Franco Parenti di Milano dal 12 al 29 novembre, è andato in scena al Teatro Civico 14 di Caserta dal 6 all’8 novembre, al teatro 99Posti di Mercogliano (AV) il 5 e 6 dicembre, al Teatro Bellini di Napoli dall’8 al 13 dicembre.
Written by Irene Gianeselli