Deriva da unus (uno) e versus (participio passato di “vertere”, “volgere”) e quindi “raccolto in una unità”. Da qui il latino universus (tutto, intero). Ora io, sdraiato sul mio letto con la tenda che fluttua fuori e dentro la finestra sospinta dalla corrente calda di questo penoso sabato pomeriggio d’estate, penso alla parola “universo” come “unico-verso”, ossia come qualsiasi cosa che vada in una sola direzione. Dacché, ne deduco, “universo” è tutto ciò che procede senza tornare indietro, un fiume, una valanga, un filo di saliva che cade dalla bocca di un tizio che sputa il dentifricio nella conca del lavandino, un gattino che salta giù dalla cima dell’armadio, un’unghia tagliata che si stacca e svolazza nel vuoto prima di ricadere e perire inerme sull’orlo del tappeto, un singolo pelo dei miei baffi che spunta dal suo beato solco epidermico mirando a crescere in eterno fino alla consunzione ultima della materia che lo sorregge e lo nutre.
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