Ettore Messina, al momento coach del Cska Mosca, una delle squadre favorite alla vittoria finale dell’Eurolega, ha parlato del suo presente nella squadra russa, passando per il momento di difficoltà del movimento in Italia, fino a dare uno sguardo ai Los Angeles Lakers, squadra di cui è stato assistente lo scorso anno. In una bella intervista ad Eurosport quello che al momento è sicuramente il miglior allenatore d’Europa ha fatto poi un raffronto tra le principali differenze del gioco tra NBA ed Europa.
Ecco un estratto con i passaggi principali dell’intervista (qui l’intervista completa).
Dopo la grande delusione della passata stagione per il Cska Mosca, con la sconfitta in finale di Eurolega, quest’anno si avverte molta pressione nell’ambiente?
“Ho già lavorato con il Cska Mosca: è una grande società e, come tale, si affida a grandi professionisti che devono avere le spalle abbastanza larghe per riuscire a sostenere questa pressione, siano questi membri dello staff tecnico o giocatori. Quando si arriva qui, si capisce subito che questo è un club molto serio, molto ambizioso, che vuole vincere. È normale che al Cska gli standard siano posti ad alto, altissimo livello.”
In una recente intervista, Andrea Trinchieri, coach di Cantù, ha parlato di due scuole di allenatori in Europa: quella di Obradovic e quella di Messina. Che cosa ne pensa?
“Se sono visto come un maestro, non posso che esserne onorato. È vero, mi piace insegnare, soprattutto ai giovani, e trasmettere quello che ho imparato in tanti anni di carriera. Tengo sempre la porta aperta, per tutti: ci sono sempre esperienze da condividere, sia che si lavori con un grande coach o con un giovane giocatore.”
Negli ultimi anni le squadre italiane hanno raccolto scarsi risultati in Europa, eccezion fatta per Siena. C’è speranza per un miglioramento?
“Sì, l’Italia sta andando male, e sarebbe sciocco negare l’evidenza. Ma, in maniera curiosa, questa situazione sta permettendo a diversi giovani di emergere. È una cosa molto buona per lo sviluppo della nostra Nazionale.”
Sta seguendo con attenzione la stagione NBA quest’anno? Come valuta il campionato dei Lakers finora? Cos’è che non funziona in questa squadra?
“Assolutamente sì. Anzi, la seguo più di quanto facessi prima perché ho ancora diversi amici a Los Angeles con cui mi sento spesso.
I Lakers sono in una situazione strana, hanno avuto molti alti e bassi. A inizio stagione le difficoltà erano date dal fatto che inserire all’interno di un gruppo Steve Nash e Dwight Howard, due giocatori abituati ad avere un intero sistema costruito attorno a loro, non è stato semplice. Hanno faticato ad adattarsi alla nuova situazione. E l’esonero di Mike Brown dopo pochissime partite non ha aiutato a costruire il gruppo. Poi ci sono stati tanti, tantissimi infortuni. Ma in questo momento, penso che i Lakers possano ancora essere una squadra da playoff. E nella post-season avrei sempre paura ad averli come avversari. Il trapasso di Jerry Buss, per assurdo, potrebbe dar loro una marcia in più dal punto di vista emotivo. Non ho mai avuto la fortuna di conoscere l’ex-patron dei Lakers di persona, ma tutti sanno quanto fosse affezionato alla squadra e quanto grande fosse la sua voglia di vincere.”
Quali sono le differenze più grandi che ha notato tra NBA e pallacanestro europea?
“Al primo impatto le diversità sono soprattutto tecniche: dunque rotazioni, giocatori utilizzati, set di schemi, calendario fitto, mancanza di riposo tra una partita e l’altra. Bisogna lavorare molto in fretta e utilizzare al massimo il poco tempo che si ha a disposizione anche per stilare allenamenti specifici per ogni singolo giocatore. Ma la differenza principale è sul piano sociale: le relazioni tra giocatori e allenatori sono più intense perché con così tante partite e trasferte così lunghe e ripetute si trascorre molto più tempo insieme. È difficile da capire per un giocatore abituato alla pallacanestro europea: qui non capita mai di dover giocare una sera a Barcellona, poi prendere l’aereo per essere il giorno dopo a Istanbul e giocare di nuovo. È stressante sia fisicamente sia mentalmente, e non vi dico per le superstar. Sono costantemente sotto pressione, perché ogni sera devono dare il massimo per la squadra, essere decisive e vincere. Ma devo anche ammettere che a giocatori come Kobe Bryant e Pau Gasol piace molto essere in questa situazione. Personalmente, l’esperienza negli States è stata una delle più interessanti della mia carriera.”