Ettore Scola e Giovanni Berardi
La grande stagione della commedia all’italiana passa soprattutto attraverso il cinema di Ettore Scola. Sin dai suoi primissimi lavori come sceneggiatore (Scola è stato un ottimo sceneggiatore, ma anche un magnifico vignettista e disegnatore di giornali umoristici), pensiamo a titoli come Un americano a Roma (1954) di Steno, Lo scapolo (1955) di Antonio Pietangeli, Il carabiniere a cavallo (1961) di Carlo Lizzani, Il sorpasso (1962) di Dino Risi, Anni ruggenti (1962) di Luigi Zampa, La marcia su Roma (1962) di Dino Risi, I mostri (1963) di Dino Risi, Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, film storicamente riconosciuti quali portabandiera della commedia all’italiana, Scola diviene certamente una personalità fondamentale di quel genere importante (e molto invidiato all’estero) per la cinematografia italiana.
Dice Scola: «In realtà ho iniziato come negretto, scrivendo per altri senza apparire. Avevo dei grandi modelli: Fellini, Amidei, Zavattini, ma scrivevo anche sketch per Totò, Macario, Tino Scotti e Alberto Sordi». Fondamentale è stata, in ogni caso, la grande scuola del Marc’Aurelio, giornale satirico tra i più ispirati, vissuto tra il ventennio fascista ed il dopoguerra, dove il giovanissimo Scola ha l’opportunità di crescere tra le menti più acute della satira e del miglior grottesco come Gioacchino Colizzi detto Attalo, Stefano Vanzina detto Steno, Giovanni Mosca, Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Furio Scarpelli, Agenore Incrocci detto Age, Federico Fellini, Ruggero Maccari.
La sua attività di regista, in seguito, sarà fondamentale per il cinema italiano: con C’eravamo tanto amati (1975), la commedia all’italiana raggiunge, pensiamo, la massima espressione. Se I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli è considerato come il film che ha aperto, con quel senso netto di realismo e tragedia, la grande parentesi della stagione della commedia all’italiana, con La terrazza (1982) Ettore Scola ha definitivamente concluso quella esperienza. Ed oggi lo stesso Scola, attraverso le sue ultime apparizioni pubbliche, non perde occasione di decretare un po’ quella che è anche la fine del cinema italiano, di un certo cinema certamente, vista l’incapacità dei posteri, tutto sommato, di creare e definire nel tempo nuovi movimenti. Infatti, le parole di Scola oggi suonano come pure avvisaglie di un sincero e netto, e forse nemmeno tanto dispiaciuto, disagio verso il cinema italiano. Ma Ettore Scola, incalzato, di fronte alla domanda specifica risponde: «No, no, nessun disagio e nessun diniego, semplicemente ho smesso di fare il cinema».I lettori perdoneranno, adesso, la parentesi assolutamente personale, perché Ettore Scola rimane per il cronista un’autentica solenne passione, umana e cinematografica: il suo Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968), ad esempio, rappresenta per chi scrive la scoperta del cinema italiano più autentico ed ispirato, al di là dei grandi film del genere western, spy-story, mitologici, avventurosi, fantascientifici, farseschi, comici, musicali che, sino ad allora, lo avevano, nei gloriosi anni della sua adolescenza, letteralmente affascinato. Dopo, invece, con Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca (1970) si è aperta quella che l’autore di questa rubrica considera la grande stagione del cinema importante, questo perché dopo gli accadeva di stare seduto in platea, assolutamente ammirato, a condividere pellicole come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, Uomini contro di Francesco Rosi, Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, Roma bene di Carlo Lizzani, La violenza quinto potere di Florestano Vancini, Girolimoni di Damiano Damiani. E sempre Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca, ad esempio, è, in qualche modo, anche all’origine dell’impegno politico del cronista.
Dice Ettore Scola al proposito: «Si, io credo che il cinema italiano, un certo cinema italiano, è stato molto vicino alla politica, almeno ad una certa politica. Ad esempio, quando per Dramma della gelosia dovevo girare la scena del comizio, ricordo che era un periodo di elezioni e c’erano quindi in giro diversi comizi. Io ho preferito aspettare quello del partito comunista, e proprio quello di Pietro Ingrao in Piazza San Giovanni a Roma, non solo perché ho sempre percepito nel partito comunista una vicinanza ideale, ma perché ho sempre pensato a Pietro Ingrao, in primo luogo, come al politico più vicino ai drammi della povera gente». Rivelatrice, in questo senso, è la sequenza in cui troviamo il muratore Oreste Nardi, il personaggio interpretato da Marcello Mastroianni, ridotto ormai in uno stato pietoso di alienazione e depressione per via del tradimento della sua donna, la fioraia Adelaide Ciafrocchi, interpretata da Monica Vitti. L’Oreste si trascinava via come uno straccio, offeso ed indifeso, verso la piazza del comizio del suo partito comunista, continuando a chiedersi perché il suo partito non si interessava affatto alla sua vicenda di corna.
Dice Scola: «Oreste-Mastroianni inseguiva un’idea di partito proprio totalizzante, come era poi davvero il partito comunista degli anni sessanta, che non si fermava solo alla prestazione politica, ma con il suo sostegno voleva entrare anche nella vita delle famiglie». La sequenza proseguiva con il segretario della sezione romana del partito che, vedendo Oreste così afflitto, continuava a chiedergli come stava in quel preciso momento. «Ma non sto bene per niente…» - rispondeva Mastroianni, ed il segretario di rimando: «Senti Pietro, adesso…dai»; «Si, si, sento Pietro» – rispondeva con fiducia Oreste. Il deputato al parlamento italiano Pietro Ingrao, nel film di Scola, veniva chiamato semplicemente Pietro, e questo, anche se può apparire alquanto bizzarro o ininfluente, si è rivelato un viatico forte per il giovane cronista a far sì che il suo impegno politico si concretizzasse definitivamente.
Dice Scola: «La commedia all’italiana, quella a cui noi abbiamo dato il nostro contributo, continuando certo, in qualche maniera, il lavoro già cominciato dai grandi del neorealismo, era una commedia non priva di tentativi di indagini e di critica, a volte indulgente ed a volte al vetriolo, verso ciò che era un po’ l’organizzazione sociale nazionale, il mondo politico, la chiesa, la polizia, i militari, la giustizia. Nessuno di questi argomenti è stato evitato dal nostro cinema. Le nostre sceneggiature duravano anni di lavoro, mentre leggo con piacere che oggi i giovani sceneggiatori impiegano non più di un mese a risolvere una stesura. I tempi si sono quindi, come dire, accorciati. Dopodiché, cioè di film in film, in fondo, siamo scivolati in quello che è diventato un po’ anche il racconto cinematografico dell’identità italiana».
Visto l’accenno di Scola al neorealismo italiano, al cinema inteso anche come fermento politico, la domanda di rimbalzo è stata: «Quando è scoccato il momento in cui il cinema divenne interprete, in fondo, di lotte sociali e di sentimenti patriottici o di rivolta, che sicuramente avevano poco a che fare con l’idea di cinema di quel periodo?». Risponde Scola: «Non penso che ci sia stato un periodo determinato. Voglio dire che è difficile individuare un film, una sequenza in cui il linguaggio è cambiato, rispetto a quello che era prima, e che ha portato all’innovazione. Io credo che il cinema, in questo senso, sia stato un lungo percorso, di cui noi abbiamo goduto e nutrito un pensiero, culminato poi nel decisivo movimento del neorealismo. Se il cinema fosse rimasto soltanto quello dei telefoni bianchi o quello delle commedie ungheresi, penso che non sarebbe entrato, come invece ha fatto, nel contesto della storia. Credo fermamente che ognuno ha portato il suo mattone per costruire questa nuova diga. Certo, senza Chaplin sicuramente non si sarebbe arrivati a certe coscienze, senza Eizenstein, senza Rossellini, senza De Sica, Zavattini, Amidei, senza tutti quelli che hanno lavorato mettendoci dentro, non soltanto la passione per il cinema, ma questa voglia e questo pensiero di rivolta per cambiare qualcosa. E tutto ciò ha portato i suoi frutti, il cinema è diventato un’espressione ed uno strumento di grande e fondamentale lotta sociale».
Oggi Scola riconosce di non avere più idee per il cinema, anzi precisa che le idee ci sono, ma non hanno più niente a che fare con il cinema. È un peccato, pensiamo, perché guardando oggi la sua filmografia di regista si resta con un groppo alla gola. A menadito: Se permettete parliamo di donne, (1964), Thrilling (episodio Il vittimista) del 1965, L’Arcidiavolo (1966), Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa (1968), Il commissario Pepe (1969), Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca (1970), Pemette? Rocco Papaleo (1971), La più bella serata della mia vita (1972), Trevico-Torino: viaggio nel Fiat-Nam (1973), C’eravamo tanto amati (1975), Brutti, sporchi e cattivi (1976), Signore e signori buonanotte (1976), Una giornata particolare (1977), I nuovi mostri (1977), La terrazza (1980), Passione d’amore (1981), Il mondo nuovo (1982), Ballando, ballando (1984), Maccheroni (1985), La famiglia (1987), Splendor (1988), Che ora è (1989), Il viaggio di Capitan Fracassa (1990), Mario, Maria e Mario (1993), Romanzo di un giovane povero (1995), La cena (1998), Concorrenza sleale (2001), Gente di Roma (2003).
Giovanni Berardi
Scritto da Redazione il nov 21 2011. Registrato sotto DA UOMO A UOMO, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione