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Eugenio Scalfari: “L’amore, la sfida, il destino: Il tavolo dove si gioca il senso della vita”. O dello Scalfari poeta e non del filosofo. Una lettura moderatamente critica.

Creato il 10 novembre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

9788806218508di Rina Brundu. Per onestà di metodo debbo confessare che ho scaricato “L’amore, la sfida, il destino: Il tavolo dove si gioca il senso della vita” (Einaudi) di Eugenio Scalfari con uno spirito molto battagliero. Qualche settimana addietro avevo visto la presentazione che ne aveva fatto lo stesso autore, a “Che tempo che fa” di Fabio Fazio e ne ero rimasta negativamente impressionata. Troppo chitchat, mi sono detta, senza considerare che andare a parlare del senso della vita e del suo significato ultimo in un talk show televisivo è un poco come svendere i gioielli di famiglia da un Compro-oro: una cosa che si fa solamente quando si è alla frutta, cosa che non credo sia il caso del dottor Scalfari.

Poi ho letto il prologo del testo e mi sono accorta che la risposta a quella mia obiezione silenziosa era proprio la prima risposta che si preoccupava di dare il libro. Scrive Eugenio Scalfari: “Si conclude con questo libro una ricerca che cominciò diciotto anni fa. Avevo settant’anni, la cosiddetta quarta età era già sulle mie spalle ma non me ne ero affatto accorto, salvo che per un problema che soltanto allora cominciai a percepire: il tempo scorreva dentro di me molto più velocemente ed io lo percepivo come una cascata che mi trasportava a valle, verso un fiume, verso una foce. Da allora questa percezione, che chiamo sentimento del tempo, non ha fatto che aumentare. Ora sto percorrendo i miei novant’anni, è come se un giorno fosse un anno. Non è sgradevole e mi spinge a fare molte cose insieme, i desideri sono aumentati di numero e di intensità, quando parlo con un amico o dinnanzi ad un pubblico di ascoltatori divago spesso, non mi attengo al tema ma seguo le associazioni che mi portano lontano anche se – lo spero – non sono prive di pertinenti significati”.

A suo modo questo incipit molto accorto, molto intelligente, molto remissivo ha calmato i miei bollenti spiriti. E poi ho continuato a leggere per curiosità: affascinata dagli scampoli di vita vissuta (vedi quel tratto di vita, della prima giovinezza, percorso con Italo Calvino e gli altri amici del gruppo che aveva “incontrato Atena”) che l’autore regalava qua e là, infastidita da qualche passo retorico-cheap (“E cominciano le amicizie con i coetanei, non solo per giocare insieme, per corteggiare insieme, per innamorarsi insieme, ma per immaginare e pensare insieme), determinata ad andare a vedere come avrebbe intrecciato Eugenio Scalfari il rapporto tra filosofia e fisica teorica, una cosa che personalmente mi interessa parecchio e che l’ex direttore di “Repubblica” prometteva di fare.

Poi l’autore procede con una serie di “avvertenze” al lettore incauto, facendo il verso a modalità “andate” di presentare uno scritto (ma allora che fiducia posso dargli rispetto al trattamento delle grandi questioni filosofiche che pone la fisica teorica più avanzata? – il dubbio era fastidioso ma confesso che ha cominciato ad assillarmi). “La terza avvertenza è anche una confidenza:” scrive Eugenio Scalfari, “ho scoperto soltanto mentre ero arrivato a scrivere circa metà di queste pagine che in realtà stavo raccontando una partita immaginaria dove ciascuno di noi gioca la partita della sua vita. In ogni gioco c’è una posta da vincere o da perdere e ciascuno gioca portando al tavolo le sue virtù e i suoi difetti, la sua forza e la sua debolezza, le sue speranze e le sue disperazioni”.

“Cazzate!”. Se questo fosse un libro di Fabio Volo sarebbe proprio quello che direi. Ma il libro è di Scalfari e non lo dico: non perché è Scalfari ma perché questo signore ha circa 90 anni, ha vissuto un suo tempo e ha visto e fatto tante cose, per questo motivo merita rispetto. Tra il rispetto dovuto e la capacità di introspezione filosofica esiste però un gap sostanziale: per meglio dire, la troppa retorica non si addice a chi ha un modus pensandi chiaro, una visione delle cose lucida, una innata capacità di buttare sul tavolo prospettive di osservazione nuove: questo io mi aspetto da Scalfari e da chi dice di voler sviluppare un discorso impegnato “sul senso della vita” e dirimere sul rapporto tra “filosofia e fisica teorica”. Siedo uneasy sulla mia sedia ma continuo a leggere.

Le cose non migliorano: non mi sento a mio agio quando scopro che al tavolo di questa immaginaria partita giocano Eros, Narciso, il “Caso”, Edipo che è “icona di trasgressione”, per arrivare alla Morte che “è presente a tutta la partita anche se noi facciamo tutto il possibile per rimuoverla”. E poi il prologo prosegue perdendo la magia dell’incipit e confezionando un fagotto retorico e di dejà-read che va bene per i radical chic di ritorno ma che procura una sorta di sonno neuronale in una qualsiasi mente mediamente sveglia.

L’incipit del primo capitolo è nuova fonte di infelicità, laddove il suo indiscutibile tocco poetico si perde vittima della luce che viaggia nello spazio “per conto proprio”: “La notte sentivo il respiro del mare e mi sembra il respiro dell’Universo che si espande e si restringe, e le stelle cambiano posto, alcune sono già spente ma la loro luce arriva ancora perché viaggia per conto proprio e lo spazio e lunghissimo da percorrere”. Qualche perla illumina un tessuto narrativo che mi appare sempre più grigio: “La storia di una vita bisognerebbe raccontarla al contrario cominciando dal momento della morte e risalendo fino a quello della nascita. Solo in quel modo si può capirne il senso…”.

Anche il secondo capitolo mi imbroglierà come il primo? Adesso mi sento legittimata a chiedermelo. Anche questa parte inizia infatti facendo sfoggio di una capacità poetica importante: “La casa di cui ora parlerò stava in un paese della Calabria addossato alla Serre; poco lontano il mare da cui emergeva all’orizzonte il cono dello Stromboli e il suo pennacchio di fumo. La Calabria di allora era identica a tutti gli altri Sud del Mediterraneo…”. La differenza col capitolo precedente è però data dal fatto che questa volta la vena poetica non viene meno quasi mai. È stato così che ho scoperto un dottor Scalfari grande poeta e scrittore sopraffino quando si interroga: “Si può toccare l’anima con un dito?”.

Il resto del libro tuttavia si perde ancora laddove gli insegnamenti del Vangelo, le ragioni importanti delle odissee shakesperiane, gli echi dei miti anglossassoni (ma non solo), una acculturazione scolastica evidente producono un amalgama insoddisfacente, filosoficamente e scientificamente inconcludente, mentre le pregnanti tematiche filosofiche che pone la fisica teorica non vengono neppure sfiorate.

A lettura ultimata – benché le “grandi domande” siano rimaste senza risposta –  si può senz’altro concludere che questo testo è scritto da uno scrittore a tutto tondo, da un grande scrittore e da un grande poeta. Certo, anche da un filosofo. A mio modo di vedere però la miglior filosofia il dottor Scalfari l’ha prodotta proprio tra le sue pagine più poetiche; alla maniera di uno scrittore che anziché parlarsi addosso grazie ai buoni servizi resi dal suo narratore lascia che siano i suoi personaggi a raccontarsi. Bello sarebbe dunque che quest’autore indubbiamente capace, mercé il suo indiscutibile know-how letterario e la sua esperienza, il suo talento, si dedicasse a scrivere un vero e proprio romanzo, nello stile del grande romanzo: a giudicare da ciò che si vede nella lista dei più venduti in Italia in questo momento, ce n’è davvero bisogno!

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