«Tornano, vedi, ricomposte le visioni/ sono la prima e la penultima, i buoni/tramonti di ogni cosa, di ogni cosa:/riposa nell’unica durata, nel battito/delle tangenziali e della mente,/nel centro del buio, un’antica rima/mescolata alla vita, un calice sparso/sul catrame e, ancora prima, il sacro/rottame di ogni cosa: perciò riposa,/ti supplico riposa in questa quiete/di fanali, interrompi il soprassalto,/sono dolci mezze luci dei piazzali/sono queste, guarda, sono assorte/e tua accettala, la tua unica, la tua/gentile, lentissima morte» M. De Angelis, L’ago del ritorno in Biografia sommaria
Cenere è la morte, cenere è la vita, cenere è l’amore. Valeria Parella si muove sul limite amore-morte con la sua scrittura magmatica e geometrica, costruendo con “Euridice e Orfeo” una drammaturgia bilanciata. Una voce è quella del cantore che si consuma disperato per la perdita dell’amata, una voce è quella della ninfa che evocata entra in scena più vitale dei vivi, sono due voci separate, diverse per intenzione e per intonazione che però si rincorrono e si incastrano l’una nell’altra. E queste voci alla fine si disperdono, proprio come la cenere mentre le visioni si ricompongono e il sacro rottame della poesia si placa in un tonfo sordo. Quel tonfo sordo è la caduta dell’uomo nell’oblio della consapevolezza.
Michele Riondino è un Orfeo grezzo, ruvido, a tratti catatonico, si muove come governato da invisibili e sottilissimi fili, ancorato, arroccato nel suo dolore. Federica Fracassi è una Euridice melodiosa e archetipica perché è donna, Natura, Terra, madre e amante ed è attraverso le sue parole che Orfeo impara a comprendere le infinite e necessarie morti dell’universo.
Perché nella letteratura come nella musica e nella danza, da Platone, Ovidio, Virgilio a Calderón de la Barca, Cocteau, Calvino e Pavese – giusto a volerne citare alcuni -, Orfeo si impone come sacerdote del lutto di Euridice. E sacerdote, difatti, è anche per la regia di Davide Iodice: Orfeo cammina all’indietro, voltando le spalle alla realtà, con il capo basso e il viso coperto da una maschera livida, danza con l’abito che è stato della ninfa, si smarrisce nel suo statico tentativo di ridare movimento all’assenza di Euridice.
Ma Euridice è immolata sull’altare dell’ispirazione poetica e questo altare nella scenografia suggestiva di Tiziano Fario è un letto coperto di foglie secche. Euridice è nascosta in un armadio conficcato nel ventre sulfureo della Terra. Euridice è immolata, ma non per questo è soltanto una muta vittima del Fato. Anche da morta, la sua potenza è generatrice, è Euridice stessa la Poesia che Orfeo canta nella sua catabasi e anabasi.
Pare questo il tentativo univoco della Parella e di Iodiceù, mostrarci quanto poco possiamo nonostante la hýbris di cui ci vestiamo e con cui ogni tanto solleviamo il capo e ci ribelliamo alla contingenza, alla materialità, al presente fatto di oggetti che consumiamo voracemente e subito sostituiamo con nuovi oggetti, altrettanto indifferenti, anonimi, vuoti. Siamo manichini in una realtà che ci appartiene, ma che non riusciamo a comprendere, di fatto però, paradossalmente, siamo sempre noi a guidare i nostri movimenti diventando così complici del fato. Anche qui, in una scena delicata e coreografica la Euridice della Fracassi ha in un manichino il suo complementare. È una consapevolezza, questa, che il mito greco, la tragedia greca, già posseggono e che regista e drammaturga ripropongono in chiave post-moderna con suggestioni fisicamente oniriche.
E se il gioco di luci segna il limite tra visione e realtà, vita e morte, amore e assenza fino a nasconderlo e trasformarlo in una linea d’ombra sottile e impalpabile, le musiche originali di Guido Sodo – che l’autore suona dal vivo con grande raffinatezza – sono un tutt’uno con la voce delicata e struggente di Federica Fracassi. Musica e voce creano un tessuto sonoro ipnotico e commovente.
«Non sono le guerre che uccidono gli uomini, ma l’impossibilità di comprendere fino in fondo ciò che intuiscono» è Euridice a spiegarlo ad Orfeo che si lascia guidare come un bambino e come un bambino teme di rimanere solo.
È interessante riflettere su quanto la catabasi del vedovo sia un atto di profondo, forse non del tutto sano, egoismo: perché disturbare i morti se la morte è un problema di chi resta? Questo è il tema centrale di molte interpretazioni del mito che la scrittura drammaturgica qui risolve in accenti di musicalità diffusa, di sospensione fra tensione della parola che si fa canto e nel canto modula un difficile rapporto con la natura e con la storia.
Ed è sempre e soltanto Euridice - insieme con Hermes (Davide Compagnone) che però rimane una voce un poco distaccata, un critico estraniato, al di là della tragica separazione tra i due amanti – a guidare Orfeo, costantemente richiamato ad essere “presente” da Eleonora Montagnana che rappresenta al contempo il lamento del coro greco, delle anime dei defunti e delle prefiche.
Il canto non si spezza mai, né si incrina la voce. Semplicemente si placa in attesa della nuova vita, del nuovo ritorno della ninfa.
Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Gobetti di Torino dal 15 al 20 marzo 2016.
Written by Irene Gianeselli