Dopo una pausa di riflessione, torno a voi per parlarvi ancora della tragedia greca attraverso la voce di un rivoluzionario del pensiero e di un profondo innovatore della più alta manifestazione letteraria greca.
Autore molto discusso fin dall’antichità , ebbe non comuni detrattori: Aristotele nella Poetica gli attribuisce la responsabilità di aver ucciso la tragedia, sottraendole l’elemento patetico e catartico; Aristofane nelle Rane, laddove riferisce la cronaca del tempo riguardo alla disputa tra i tragediografi, lo presenta come un rozzo portatore dei nuovi costumi e gli attribuisce umili origini. La verità è che Euripide interpreta la temperie difficile e critica di Atene contemporanea e successiva alla disfatta delle guerre del Peloponneso, in cui, come noto, Sparta vince su Atene decretando il declino della più grande potenza greca e la fine della sua democrazia.
La leggenda, infatti, vuole che egli sia nato il giorno della battaglia di Salamina (480) mentre Eschilo combatteva e Sofocle intonava il peana di vittoria; morì a Pella, in Macedonia, nel 406. Ebbe quindi modo di assistere al collasso di Atene, e il suo trasferimento, prima a Magnesia, poi a Pella, alla corte dei re Macedoni, è segno tangibile della sua lungimiranza storica e della certezza che la Macedonia avrebbe esteso il suo impero, ponendo fine alla polis, città-stato, alle forme democratiche, imponendosi nel panorama occidentale fino a decretare la fine dell’età classica e l’inizio di quella ellenistica.
Stando così le cose, come avrebbe Euripide potuto rimanere fedele ai canoni della tragedia, nata per celebrare la tradizione e il rapporto polis-cittadino? Va da sé che egli assorbe e interiorizza gli impulsi proveniente dalla società in profonda crisi e trasformazione e mette in scena l’uomo, spesso la donna, tormentato da dubbi e conflitti interiori che si riflettono sul mondo esterno. Per cui, la tragedia di Eschilo tratta il rapporto Dio-uomo, quella di Sofocle il rapporto uomo-Dio, quella di Euripide è il rapporto uomo-uomo. Questi verrà scandagliato al suo interno tradendo tutta la sua finitezza e incertezza, i turbamenti dell’anima, rivelando un disagio esistenziale profondo che non gli consente di relazionarsi pacificato e sereno con l’altro. Il rapporto interiore e quello esteriore rivela la dimensione altamente conflittuale dell’essere umano.
Evidente e profonda è l’influenza della sofistica, i cui strumenti erano già stati adottati da Sofocle per ribaltarne i presupposti: non è l’uomo misura di tutte le cose, ma il Dio. Euripide invece aderisce in toto al messaggio di Protagora e crea un teatro antropocentrico; di questi fu anche discepolo, segno di una condizione sociale agiata e di una apertura mentale non comune. Profondo indagatore dell’animo umano e studioso indefesso, mette su una ricca biblioteca, una delle prime di cui si faccia menzione. Quindi la presunta bassezza delle sue origini potrebbe essere un’invenzione dei suoi detrattori, come Aristofane e Teofrasto e tutti quegli intellettuali che non accettavano la trasformazione dei tempi e che non si facevano consapevoli che era giunto il tempo che Atene passasse il testimone a potenze più grandi, come quella macedone. Inviso agli Ateniesi in vita, poche volte vinse agli agoni tragici, ebbe moltissima fama postuma, come preconizzatore dei nuovi tempi e profondo interprete della psiche umana.
Muore con lui l’eroe forte, tetragono, sofocleo, che nella sua solitudine porta avanti determinato il suo progetto, e si fa spazio l’uomo, con tutto il suo portato di dubbio, conflitto e intima sofferenza, l’uomo in ricerca che apre un dibattito con sé e con l’altro, avvedendosi spesso del dramma della incomunicabilità. Egli pirandellianamente si frantuma, diventa uno, nessuno, centomila, mentre la verità perde l’assoluto e si fa relativa, ogni uomo con le sue mille verità che dibattono con le altrettante verità degli altri; a Euripide non manca lo spirito religioso, ma vacilla la certezza nello Zeus garante di giustizia, mentre si apre ai nuovi influssi religiosi provenienti dall’Oriente, come nelle Baccanti, ultima sua geniale opera.
Sperimentatore di nuove soluzioni, innova la tragedia sotto il profilo tecnico, inserendo il noto deus ex machina, che interviene a sciogliere l’intreccio, soprattutto nelle tragedie più tarde; progressivamente svaluta il ruolo drammatico del coro ( il vero protagonista delle tragedie eschilee), che tende ad assumere la funzione di pausa nell’azione e spesso ricopre una funzione di mera coreografia.
Perché l’eroe è solo con suo dramma, insicuro e fragile e nulla può fare il coro per lui, che lo abbandona, perché ora la città si sta sgretolando sotto i colpi delle sconfitte e l’avanzare dell’impero macedone. Non dimentichiamo infatti che nel teatro di Eschilo e di Sofocle i coreuti non sono altro che i cittadini che sostengono la parte dell’eroe; ora però la città-stato sta morendo e la tragedia perde la sua valenza politica. Euripide, quindi, ci presenta una tragedia più variegata e ricca di novità, con al centro l’uomo in riflessione psicologica, come meditabondo appare il tragediografo nei busti che lo ritraggono, un uomo i cui sentimenti vengo profondamente disaminati e confrontati con la realtà mediante l’inserimento di parti dialettiche per allentare la tensione drammatica e alternare le modalità narrative.
L’aspetto dialogico affonda le sue radici nella Sofistica, da cui desume l’antropocentrico realismo e l’indagine psicologica, degna di Freud, perché il tragediografo porta alla luce le motivazioni inconsce dei pensieri e delle azioni dei suoi protagonisti. In questa operazione un ruolo speciale ricopre Socrate, suo amico, che maieuticamente porta alla luce le verità nascoste attraverso il dibattito. Lo sfaldamento del modello eroico tradizionale e dell’uomo tutto, mette in scena le figure femminili, di cui delinea la tormentata sensibilità con un’indagine serrata delle pulsioni irrazionale che dibattono e confliggono con la ragione. Il personaggio di Medea in primis docet, la donna che arriva ad uccidere i suoi figli ribellandosi barbaricamente al matrimonio di convenienza di Giasone con Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto. Il caso Medea, oggi purtroppo così attuale, è l’occasione per indagare l’abisso dell’animo umano e i limiti che esso può valicare quando la ragione dorme e l’inconscio prevale con i suoi devastanti effetti. Medea, infatti, uccidendo i suoi figli distrugge la parte più bella di sé.
In conclusione, Euripide non solo anticipa l’Ellenismo, rivedendo tragedia e miti connessi, ma addirittura il pensiero freudiano e il tracollo dell’uomo all’inizio del nostro Novecento, ben analizzato nel romanzo psicologico di Pirandello e Svevo.
Written by Giovanna Albi