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Euro e corruzione: interpretazione del mondo di mezzo

Creato il 03 dicembre 2014 da Albertocapece

CORROTTINon si può dire che il nuovo scandalo scoppiato nella capitale corrotta di un Paese infetto, giunga come un fulmine a ciel sereno, soprattutto se coinvolge un uomo al di sotto di ogni sospetto come Alemanno: decenni di corruzione ci hanno ormai abituato ad aspettarci il marcio dovunque e a considerare quasi normale il cortocircuito affari -politica con l’aggiunta negli ultimi due o tre lustri della criminalità organizzata grazie alla liquidità di cui dispone. Non a caso siamo finalmente riusciti ad assicurarci il primato che ci spetta di diritto: quello di Paese più corrotto d’Europa, titolo finalmente riconosciuto ufficialmente.

Del resto l’occasione di cambiare rotta c’era stata nei primi anni ’90 con mani pulite, ma alla fine non fu colta ed anzi il contatto perpetuo tra interessi privati e politica, tra affari e potere legislativo, tra gruppi di pressione e amministrazioni pubbliche, aggrappato a zoccoli elettorali fondati sulla clientela, fu addirittura benedetto e sancito  dal successo di Berlusconi che di tutto questo era il simbolo incarnato. Quello fu davvero il momento di passaggio epocale nella storia del Paese, destinato a pesare per molte generazioni sulle spalle dei suoi disgraziati abitanti. E non mi riferisco solo ed esclusivamente all’inchiesta giudiziaria perché quest’ultima non fu che un effetto collaterale di una situazione storica: con la caduta del muro di Berlino, il collasso dell’Urss era venuto meno quel mondo bipolare al cui riparo era nata e cresciuta la mutazione maligna dell’Italia. La circostanza di essere divenuto territorio di confine dell’impero occidentale, minacciato per di più anche all’interno da un potente partito comunista, aveva man mano trasformato la corruzione da accesso febbrile a malattia cronica, da patologia a fisiologia, arrivando a divenire persino una sorta di lucroso e peloso patriottismo. Ma lo Stivale era troppo importante perché alla sua classe dirigente non fosse fornito un paracadute anche economico finanziario, qualunque cosa facesse, a qualunque leggerezza si lasciasse andare.

Però nel giro di pochi anni questa situazione di privilegio venne meno e ci si trovò di fronte alla necessità o di cambiare la razza padrone nel suo insieme e nelle sue declinazioni con le modalità sociali le modalità sociali che aveva costruito, oppure di aggrapparsi a una nuova logica che imponesse dall’esterno una sorta di disciplina fiscale e monetaria. Questa, nonostante già il sistema di cambi concatenati dello sme si fosse rivelato disastroso, togliendo al Paese gran parte della sua competitività e portando persino alla necessità di un uscita forzosa dal sistema ( nei fatti il default del ’92), fu individuato nell’adesione incondizionata all’euro. L’idea della moneta unica nacque come progetto politico fortemente voluto dalla Francia che si illudeva in questo modo di poter imbrigliare e compensare il peso della Germania riunificata. L’idea era davvero balzana, del tutto illogica rispetto agli scopi e infatti ha avuto l’effetto diametralmente opposto riducendo la Francia e mezza europa in ginocchio. Ma una cosa era certa: la moneta unica, avvantaggiava i Paesi forti, con produzioni ad alto valore aggiunto e forte stato sociale da poter erodere senza suscitare opposizione sociale, mentre colpiva in particolare l’Italia facendole perdere la competitività insista in una moneta debole. Il trattato di Maastricht venne firmato nel febbraio del ’92 e già nel luglio il governo Amato si trovò costretto a prelevare il 6 per mille sui tutti i conti bancari per rientrare nei parametri, mentre nel settembre successivo la Lira fu costretta ad uscire temporaneamente dallo Sme e questo accadde anche per tutte le monete dei Piigs ( salvo la Grecia che non era ancora nel serpente monetario).

Insomma una prefigurazione di ciò che sarebbe accaduto dopo. Anche sul piano sociale: noi ricordiamo il prelievo sui conti correnti, ma abbiamo dimenticato che quella manovra di emergenza prevedeva anche la fine dell’equo canone e la liberalizzazione degli affitti (con conseguenze c he oggi raggiungono il diapason), l’aumento dell’età pensionabile a 65 anni, una grossa tranche di privatizzazioni, una corposa detassazione degli utili aziendali, aumento dei ticket sanitari, tagli all’Università e alla scuola. Insomma in piccolo le stesse ricette che ci ritroviamo oggi che trasferiscono la competitività persa con la moneta su salari, diritti, welfare, democrazia. Non a caso un ruolo di rilievo nella messa a punto di quel piano d’emergenza l’ebbero oltre ad Amato che potremmo anche ritrovarci come futuro presidente, l’allora sottosegretario al Tesoro, Sacconi, ancora oggi alla testa del massacro del lavoro.

D’altra parte,benché tutto fosse abbastanza chiaro non c’erano che due strade per evitare un futuro disastro: o entrare nel meccanismo infernale dell’euro e sacrificare così il patto sociale del dopoguerra oltre che il progresso civile, come sarebbe avvenuto poi in tutta Europa, oppure risanare il Paese tagliando gli enormi utili parassitari derivanti dalla corruzione di sistema e i giganteschi costi per mantenere in piedi un apparato di sapore sudamericano. Quale sia stata la scelta lo sappiamo  e quale sia stato il grado di complicità di un Paese in cerca di padrone e padroni, non abituato ai diritti ma ai favori, timoroso di perdere le modeste rendite di posizione, lo possiamo analizzare

La beffa che ci meritiamo è che ora dopo aver assaggiato il declino, la razza padrona nei suoi ridotti di palazzo combatte la sua battaglia di sopravvivenza, svendendo tutto ciò che rimane per poter fare ancora man bassa. Da una parte agita la bandiera strappata, illusoria della crescita e dei sacrifici che essa comporta per i cittadini, dall’altra scatena le penne di servizio contro la cattiva Germania rea di aver lucrato sull’opacità della nostra classe dirigente che ci ha ficcato a forza in questa situazione. E’ un mondo di mezzo che già prepara un doppio alibi, che non ha nemmeno più carote da offrire, ma solo nodosi bastoni.


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