Europa futura

Creato il 26 ottobre 2011 da Eastjournal @EaSTJournal

di Giuseppe Mancini e Matteo Zola

Il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea è di quelli che accendono gli animi. Il fronte del “no”, che finora ha avuto la meglio, è eterogeneo e diversi sono gli ordini di problemi: in primis c’è il fatto che la ripartizione dei seggi al Parlamento europeo è basato sulla popolazione, tanto più popoloso è uno Stato, tanti più seggi avrà. Oggi la Germania è il paese con più seggi, ben 96. La Turchia, con una popolazione pressoché pari a quella tedesca, si troverebbe ad avere molti (troppi, secondo alcuni) seggi. Tanto più, e questo in secundis, che la Turchia è un paese musulmano e l’Europa in cerca d’identità non sembra in grado di accettare il proprio retaggio islamico.

L’ingresso della Turchia in Europa non sarebbe però la pavida resa a conquistatori pronti a distruggere la civiltà occidentale e la stessa costruzione europea: sarebbe al contrario il sintomo incoraggiante di una riconciliazione tra civiltà, l’occasione per il rafforzamento, il rinvigorimento, il ringiovanimento dell’Unione. E non ci sono dubbi sull’appartenenza della Turchia all’Europa: appartenenza che è oggi vocazione, scelta, autoimposizione. Storicamente, l’Impero ottomano ha fatto parte per secoli del sistema europeo: e nel 1856, alla Conferenza della pace di Parigi per la conclusione diplomatica della guerra di Crimea, ha ottenuto la formale inclusione nel concerto delle grandi potenze (allora tutte europee).

Geograficamente, è vero che la Turchia è europea, nell’accezione comune, solo per uno spicchio di Tracia orientale al di qua del Bosforo, mentre il cuore anatolico è in Asia: ma le appartenenze geografiche non sono immutabili e variano al variare dei contesti storico-culturali e dei progetti politici realizzati. Politicamente, la Turchia fa parte da oltre 60 anni del mondo occidentale ed europeo: attraverso l’adesione al Consiglio d’Europa (1949) e alla Nato (1952), attraverso il processo di integrazione europeo a partire dall’accordo di associazione (1963) e passando per la costituzione dell’unione doganale (1996) fino all’ottenimento dello status di candidato (consiglio di Helsinki del dicembre 1999, i negoziati sono ufficialmente partiti nell’ottobre 2005). Fin dagli anni Novanta è parte integrante degli sforzi multilaterali europei per la stabilizzazione e la ricostruzione dell’Europa sud-orientale; disputa tutte le più note competizioni sportive continentali, i suoi studenti possono usufruire dei programmi paneuropei di scambi universitari (l’Erasmus su tutti); Istanbul è stata nel 2010 la capitale europea della cultura: con numerose iniziative per il recupero delle sue radici millenarie e altamente diversificate.

Nel dibattito sulle radici d’Europa, ovvero sulla costruzione di una storia comune che preluda all’identità comune quale necessario fondamento per l’unità politica, la Turchia è il sassolino nella scarpa per gli storici conservatori. Non per tutti, però. Franco Cardini, storico tra i più importanti d’Italia, con un passato nell’estrema destra e un presente da cattolico, ha scritto un libro illuminante, Europa e Islam, storia di un malinteso, nel quale – riprendendo le tesi di Bernard Lewis – illustra l’osmotica e secolare storia di relazioni tra le due civiltà asserendo che l’Europa moderna non sarebbe esistita senza il contributo islamico.

Oggi questo scambio sembra rinnovarsi: dal mondo arabo arrivano migliaia di persone a rivitalizzare con le loro braccia forti e la loro voglia di futuro la vecchia e stantia Europa. Dalla Turchia – in particolare – e dal Nordafrica arriva una scossa alla politica continentale. Le prese di posizione di Ankara nei confronti della questione cipriota e dei rapporti con Israele, ad esempio, sono un importante sprone per le cancellerie europee costrette a fare i conti con problemi finora nascosti sotto il tappeto. La politica estera turca è senz’altro mossa da istanze egemoniche: lo scopo di Ankara è quello di affermarsi come paese leader nel Mediterraneo Orientale senza però dimenticare i Balcani.

La visione di Davutoğlu, ministro degli Esteri turco, è di completa rottura con la tradizione kemalista imperniata sul primato della sicurezza militare, sulla percezione dei vicini come nemici non solo potenziali, su un generale isolamento, sulla granitica fedeltà (con qualche piccola crepa, l’invasione di Cipro nel 1974) all’Alleanza atlantica e all’Occidente della Guerra fredda come antemurale contro il pericolo sovietico; un piano di azione criticamente definito dai sui detrattori “neo-ottomano”: il rigurgito imperiale dalla legittimità e connotazione islamica, la tentazione di dominio neo-califfale per imporre la supremazia di Ankara su tutto ciò – territori, beni, persone – che appartiene all’ex Impero ottomano – in Asia, in Africa, nei Balcani.

A Davutoğlu questa etichetta non piace, lo ha affermato anche nel celebre discorso di Sarajevo del 16 ottobre 2009 in cui ha rivendicato l’eredità ideale dell’Impero ottomano fatta d’integrazione multiculturale e multireligiosa, di apertura agli scambi e centralità nell’economia globale dell’epoca, di circolazione delle élites: “Come il XVI secolo vide l’affermazione dei Balcani ottomani come centro della politica mondiale, renderemo in futuro i Balcani, il Caucaso e il Medio Oriente di nuovo il centro della politica mondiale. Questo è l’obiettivo della politica estera turca: e lo conseguiremo!”


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