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Europa, l’utopia del realismo

Creato il 12 giugno 2012 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

In ogni crisi economica arriva un momento di chiarezza. Adesso ci siamo, è meglio spogliarsi dalle illusioni, quelle della cupola speculatrice e di chi in evidente carenza di utopie si trastullava con la grande federazione unita e solidale. La crisi fino ad oggi è stata una serie di presunti “decisivi” punti di svolta, ciascuno dei quali si è rivelato essere solo un altro passo giù verso il burrone. Oggi milioni di persone sono state bruscamente svegliate dalla rivelazione che l’euro come lo conoscevamo o lo volevamo non c’è più, che l’Europa come la auspicavamo non c’è mai stata e che li attende il caos. E è meglio che dimentichino le scialuppe di salvataggio del G20, del G8, del G7, di un nuovo Tesoro dell’Unione Europea, dell’emissione salvifica di eurobonds, di un grande programma coeso e solidaristico di mutualizzazione del debito su larga scala, o di qualsiasi altra favola. Siamo da soli. Magari la BCE, con esitazione e riluttanza, continuerà a fornire fondi alle banche di altri paesi – secondo un modello di sostegno seriale a singhiozzo – ma semplicemente queste risorse non saranno sufficienti a stabilizzare la situazione. Gli investitori e i depositanti risponderanno con la fuga dalle banche degli altri paesi periferici ed evitando investimenti e spese, l’euro si deprezzerà rispetto alle altre valute, ma non in modo tale che possa rendere l’Europa più attraente come destinataria per gli investimenti.

È perfino banale ricordare come tutto è cominciato. Ciò che ha colpito l’euro è una crisi mondiale sorta non nei suoi confini ma all’esterno, in America, generata da una inflazione finanziaria a sua volta promossa da un gigantesco indebitamento che ha minacciato di travolgere le banche americane, coinvolgendo quelle dei Paesi europei attraverso gli stretti legami dell’interdipendenza. Le conseguenze sono state più gravi per l’Europa che per gli Stati Uniti: il governo americano ha affrontato la crisi con un piglio drastico, con un salvataggio “governativo” in grande stile che ha consentito di sostituire l’indebitamento privato con l’indebitamento pubblico. Il peso della crisi è ricaduto sul contribuente, con conseguenze gravi per la finanza pubblica (paradossalmente “punita” dalle agenzie di rating) ma non tanto da costituire una minaccia di fallimento per lo Stato. Il lato perverso del modo in cui è stata affrontata la crisi americana risiede nel fatto che esso non ne ha minimamente rimosso le cause. Tanto che circolano con lo stesso potenziale di contagio, si sono malignamente diffuse e ritornano con gli stessi rischi da dove sono partite.

Ma le condizioni dell’Europa sono peggiori ancora: in America dietro il dollaro c’è uno Stato. Nell’Unione Europea ce ne sono ventisette. L’impatto della crisi, in Europa, è stato del tutto diverso per gli Stati che presentavano già finanze pubbliche deficitarie e per quelli più o meno in ordine. Teoricamente erano possibili due approcci: uno solidale che coinvolgesse i deboli e i forti in una unica strategia di difesa. L’altro, “egoista”, che lasciasse del tutto sulle spalle dei deboli costi dell’aggiustamento. E sappiamo quale è stato il preferito, grazie all’esperienza simbolica, non abbastanza però, della Grecia, con la sua umiliazione perpetrata con cieco e ottuso cinismo, un’allegoria a disposizione di chi sa vedere negli altri paesi europei e non solo quelli del Sud, non solo i pigs, con i depositi che fuggono dalle banche, i contribuenti che ritardano i pagamenti delle imposte, le aziende che posticipano il pagamento dei loro fornitori – sia perché non possono pagare sia perché si aspettano che presto potranno pagare in dracme a buon mercato.

Hanno vinto i carolingi, sia pure ormai dimezzati, perseguendo una scelta di rigorosa austerità che, magari rispondeva a esigenze di rigida disciplina, ma che ha mancato totalmente l’obiettivo essenziale della crescita, aggravando progressivamente i vincoli del patto di stabilità con norme sempre più restrittive, alcune delle quali persino ridicole: come quando si minaccia di trascinare di fronte alla Corte di Giustizia gli Stati che stanno rischiando niente di meno del fallimento economico. E piegandosi all’ipotesi di rilanciare il Fondo salva Stati quando ormai è troppo tardi, ridotto a oneroso sistema assistenziale, anziché osare la funzione di Tesoro europeo precursore di un vero bilancio federale e finanziatore di investimenti comuni per lo sviluppo.
in questi mesi è stato tutto un rimpallarsi di tabù e di totem, di divinità intoccabili e di eresie. Pare che il vero tabù sia una Europa che ha fallito e cui sono tenacemente fedeli come a una divinità crudele, inesorabile e vendicativa quelli che si alimentano delle sue aberrazioni, quanto quelli che si erano aggrappati a quell’intento progressista, da quel progetto sovranazionale di una grande cittadinanza.

Tutti e due i “fronti” dovranno svegliarsi, dal sogno rapace e speculativo come da quello utopico e civile. La scelta imposta di affidarsi ai tecnocrati, pasticciocrati dovremmo dire oggi più che mai, nasceva anche dalla coazione a dimostrare la superiorità del pragmatismo e del realismo, sulle idee e le visioni del futuro, della necessaria e ineludibile superiorità del mercato sui diritti, della desiderabile egemonia del profitto rispetto alla politica e dell’interesse privato sul bene comune.
Temo che i nostri tecnici, i professori, come d’altra parte i burocrati europei debbano fare un po’ di esercizio di realismo mettendosi a lavorare su come smantellare, circoscrivendo i danni, l’area dell’euro.
Nessuno scioglimento sarà mai veramente ordinato, sarà mai equo, sarà mai indolore, ma è ora, sia pure con ritardo, di esplorare i modi per ridurre gli effetti più cruenti. Si dovranno predisporre piani di emergenza, l’introduzione di nuove valute, qualche default sovrano, la ricapitalizzazione delle banche e dei gruppi assicurativi, la ripartizione delle attività e le passività del sistema euro.

Bisogna avere il coraggio di riprendere il senso più alto del progetto europeo, il libero scambio, la mobilità del lavoro in tutto il continente, riemergendo dal più basso, la moneta unica senza unità politica, la scelta dell’austerità, l’offensiva finanziaria contro la sovranità degli Stati.
Pare che il realismo ormai sia l’unica utopia concessa e che ci meritiamo.


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