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Europee 2014: Brando Benifei (PD, Nord-Ovest)

Creato il 22 maggio 2014 da Rodolfo Monacelli @CorrettaInforma

Intervistiamo Brando Benifei, candidato per le Europee 2014 con il Partito Democratico – PSE nella circoscrizione Nord Ovest

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Brando Benifei è stato coordinatore provinciale della fase costituente dei Giovani Democratici, consigliere provinciale a La Spezia, sino al 2012 Responsabile Europa dei Giovani Democratici e dal 2009 al 2013 Vicepresidente Europeo dei Giovani Socialisti Europei (ora YES). Nonostante questo curriculum, con i suoi 28 anni è il candidato più giovane presentato dal PD.

Cosa Le piace e cosa non Le piace di questa Unione Europea? Perché secondo Lei la risposta alla crisi delle istituzioni comunitarie deve essere “Più Europa”?

L’Unione Europea attraversa una fase di grande difficoltà. I risultati importanti ottenuti grazie all’integrazione europea sono in questo momento offuscati, agli occhi dei cittadini, dai limiti, limiti che hanno origine non solo nell’insufficiente integrazione ma anche nella modalità in cui questa integrazione è avvenuta in passato. Dobbiamo quindi intenderci: la risposta alla crisi deve essere “Più Europa”, ma a patto che questo ulteriore trasferimento di sovranità coincida con un cambio di metodo, con una maggiore democratizzazione e politicizzazione delle istituzioni europee, con un rafforzamento del ruolo dei partiti politici europei e con la costruzione di un vero dibattito politico a livello sovra-nazionale. Solo a queste condizioni l’incremento dell’integrazione si presenterebbe come uno scenario auspicabile.

Lei si professa un “federalista convinto”. Alcuni partiti “europeisti” nel loro programma auspicano la creazione degli Stati Uniti d’Europa, però in quello del PSE ripreso dal Partito Democratico, che in altre occasioni aveva fatto cenno a questo possibile scenario, non se ne parla. Al contempo si afferma però che “il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali devono mantenere la propria sovranità”. Il PD ha cambiato idea?

Il programma del PSE deve tenere conto e mediare fra le diverse posizioni e sensibilità che esistono nei diversi partiti progressisti, alcuni dei quali sono più riluttanti nei confronti di questo tema. L’integrazione federale rimane un obiettivo di lungo periodo, ma naturalmente bisogna tenere conto della condizioni di realtà, che in questo periodo rendono difficile porre questo tema in maniera esplicita. L’importante a mio parere è riprendere un percorso che vada in quella direzione.

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La Germania sembra essere quella che ha guadagnato maggiormente dall’attuale situazione, perché questa unione è abbastanza forte da poter imporre direttive europee, ma non così forte da riuscire a condividere un debito comune. Anzi, questo per molti tedeschi probabilmente è il maggior incubo, di fronte al quale preferirebbero addirittura uscire unilateralmente dal progetto europeo. La Merkel non vuole nemmeno gli eurobond – “finché sarò viva, non ci saranno mai” – che sarebbero una misura, benché minima, orientata in questa direzione unitaria. Nel vostro programma si fa però cenno solo ai project bond già in attuazione, che sono una cosa ben diversa, perché riguardano progetti privati e non il debito complessivo degli Stati europei. Eccetto qualche minima misura di allentamento del credito – come l’imminente “QE all’europea” proposto dalla BCE – le cose vi stanno bene come sono oppure volete andare davvero verso la condivisione di un unico debito europeo?

La prospettiva di una condivisione del debito è necessaria sul lungo periodo. Naturalmente vi sono le difficoltà politiche a cui lei accennava. Ritengo comunque che, al di là degli impegni programmatici, una forte vittoria del PSE porrebbe le migliori condizioni per ottenere i passi avanti più significativi in questa direzione.

L’attuale Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha adottato una tattica che definirei del “servo fedele”: se facciamo i “compiti a casa” dovremmo attenderci come ricompensa un allentamento dei vincoli da parte del nostro padrone, sperando nella sua magnanimità. Tra i “compiti a casa” però vi è una maggiore liberalizzazione (e precarizzazione) del mercato del lavoro e la svendita di partecipazioni pubbliche, come sollecitato dalla Troika, il cui operato è definito “fallimentare” nel vostro programma. Non nota anche Lei qualche contraddizione? Pensa che l’atteggiamento di Renzi possa pagare? È questo il modo per far “cambiare verso” alla Germania?

Non definirei la tattica di Renzi come quella del “servo fedele”. Direi piuttosto che ha impostato un rapporto dialettico con le istituzioni europee e con la Germania all’interno di una politica realistica nei confronti delle condizioni date. Dobbiamo anche ricordare le detrazioni fiscali IRPEF (i cosiddetti “80 euro”) che costituiscono una politica volta a redistribuire risorse nei confronti dei ceti più deboli e a riattivare i consumi, politica che non rientra certo nelle prescrizioni e nei desiderata delle istituzioni europee. Resta il fatto che per far “cambiare verso” all’Europa e alla Germania è nei fatti necessario un mutamento di equilibri politici. A questo fine le elezioni europee rappresentano un momento importante.

Il vostro programma si mostra critico nei confronti delle politiche di austerità che “hanno danneggiato pesantemente le nostre economie”. Come si spiega allora il sostegno del PD al governo di Monti, che di quella austerità è il simbolo, per non parlare dell’approvazione del Fiscal Compact e del Six Pack – due misure che vengono criticate nel programma del PD della Liguria – e del pareggio di bilancio in Costituzione. Tutti questi vincoli impediscono l’adozione di politiche economiche espansive e quindi, di fatto, sanciscono l’austerità per legge. Si è trattato di errori? Come pensate di rimediarvi?

Purtroppo nelle condizioni date era difficile fare altrimenti. Il Partito Democratico era costretto a governare insieme alla destra di Berlusconi, che aveva già preso impegni nella direzione del rigore dei conti durante il suo governo, checché ne possa dire oggi. C’è anche da dire che all’epoca vi era un ritardo culturale intorno a questi temi all’interno della politica e anche della società italiana, tanto che, quando fu approvato il pareggio di bilancio in Costituzione, furono ben pochi a sollevare la questione. Anche qui, vale lo stesso ragionamento generale: per superare queste misure occorre superare un paradigma generale, e anche a questo fine serve un forte mutamento di equilibri politici.

L’ex viceministro Stefano Fassina aveva detto che in Italia, all’interno dell’eurozona, “non potendo svalutare moneta, si svaluta il lavoro”. Allora vi chiedo: come mai preferite difendere la moneta unica e svalutare il lavoro – sul quale è fondata la nostra Costituzione – anziché svalutare la moneta e difendere il lavoro? Non pensa che sia giunta l’ora di prendere in considerazione, anche solo per via ipotetica, l’abbandono della moneta unica o preparare un “piano B” per giungere preparati nel caso lo scenario europeo imponesse la fine dell’euro?

Anche l’uscita dalla moneta unica risulterebbe in una “svalutazione del lavoro” in termini relativi. I salari ridenominati nella nuova valuta perderebbero immediatamente potere d’acquisto nei confronti dell’estero. In prospettiva lo perderebbero anche nei confronti di quelli interni, visto che fenomeni inflazionistici non possono essere esclusi, considerato anche il peso delle importazioni energetiche nella nostra economia, sebbene al riguardo ci siano diverse opinioni fra gli economisti. Verrebbe inoltre compresso il valore del risparmio delle famiglie, che come è noto in Italia è molto significativo e che ha svolto in tutti questi anni di crisi il ruolo di welfare informale attraverso i trasferimenti intergenerazionali, mitigando le conseguenze di una situazione di disoccupazione generalizzata che sarebbe stata altrimenti esplosiva. Occorre quindi non nascondere i grossi problemi che un’eventuale uscita dall’Euro comporterebbe e sopratutto evitare interpretazioni schematiche secondo cui un’uscita dall’Euro si tradurrebbe automaticamente in un beneficio per i lavoratori e viceversa. La questione è a mio avviso molto più complessa e sfaccettata.

Il PSE – Partito Democratico indica “l’occupazione al primo posto”. Ma è davvero possibile farla ripartire, pur restando nell’euro? Se sì, in che modo?

Occorre piuttosto disegnare un diverso scenario di uscita dalla crisi all’interno dell’Euro, fondato non sulla deflazione salariale ma sulla ripresa degli investimenti, ottenendo l’approvazione della golden rule, che scorpora le spese per investimento dai vincoli di bilancio, sui project bond e su un più attivo ruolo della Banca Europea degli Investimenti. Anche una svalutazione dell’Euro nel suo complesso nei confronti delle altre monete potrebbe aiutare la ripresa.

Lei ha fatto parte del gruppo di lavoro del Partito Socialista Europeo che ha elaborato la proposta della Garanzia Giovani. Può spiegarci brevemente di cosa si tratta?

Si tratta di una misura che, a pieno regime, dovrebbe garantire a ogni giovane fino ai 29 anni che termini gli studi o che rimanga disoccupato una nuova offerta di lavoro, educazione o formazione professionale entro 4 mesi. Si tratta di una misura che necessita di maggiori fondi per essere pienamente implementata e che non è sufficiente, considerata isolatamente, per risolvere il problema della disoccupazione giovanile, ma costituisce comunque a mio avviso un passo avanti importante e anche un segnale ai cittadini della capacità dell’Europa di promuovere misure che affrontano il dramma sociale in atto in molte zone dell’Unione.

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L’Unione Europea si fonda sul Trattato di Maastricht, intrinsecamente neoliberista, perché presuppone la libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone. Non pensate forse che l’accelerazione e il rafforzamento del processo di unificazione europea possa avere come necessaria conseguenza una sempre più maggiore pervasività delle direttive europee? Probabilmente la più nota è la Bolkestein – votata anche dagli eurodeputati socialisti, eccetto quelli francesi – ma ve ne sono pure altre che impongono gare comunitarie su tutto il territorio dell’Unione e che, di fatto, ostacolano il “km zero”, perché se ad esempio uno scandinavo offre il medesimo servizio ad un costo minore si aggiudica il bando. Questi presupposti neoliberisti secondo voi devono essere messi in discussione?

È necessario a mio parere agire sulle regole della concorrenza europea per rendere la competizione più equilibrata e rispettosa delle necessità dei territori e delle diverse realtà dell’Unione. Bisogna evitare quanto possibile fenomeni di dumping sociale e di delocalizzazione produttiva. Un altro fenomeno nei confronti dei quali bisogna prendere dei provvedimenti è la concorrenza fiscale al ribasso fra i vari paesi. In generale bisogna secondo me superare un approccio puramente neoliberista in quanto questo, astraendo dalle differenze strutturali ed economiche dei vari paesi dell’Unione, finisce per tradursi in un vantaggio per alcuni a scapito di altri.

L’Unione Europea ha da un lato lo storico partner nordamericano – anche l’Italia è costellata da un centinaio di basi militari USA e NATO – e dall’altro la Russia. Nel vostro programma si fa un brevissimo cenno sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) senza però approfondire la vostra posizione. Cosa ne pensa in merito? Oltre a ciò, occorre un cambio di strategia geopolitica? In questo contesto che sta passando dall’unipolarismo al multipolarismo, dobbiamo continuare a guardare in un’ottica atlantista o volgerci maggiormente all’Unione Eurasiatica e ai paesi BRICS?

Non penso che la questione vada posta nei termini di un aut-aut. Gli Stati Uniti rimangono un partner fondamentale per l’Europa, sia dal punto di vista economico che politico e militare. Detto questo, è la stessa posizione geopolitica dell’Europa che pone il tema del rapporto con realtà come la Russia, ma anche con i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. È nell’interesse dell’Italia valorizzare il ruolo di mediazione che può svolgere l’Europa fra culture e realtà differenti, evitando che si giunga a posizioni di scontro frontale dalle quali noi non abbiamo che da perdere. Questo presuppone però una capacità di rendere effettiva la politica estera dell’Unione. La sostanziale irrilevanza dell’Europa nell’ambito della crisi Ucraina, ma anche nel contesto delle cosiddette primavere arabe, dovrebbe suonare come un campanello di allarme in questo senso.

Lei risulta tra i candidati più “gay friendly” di questa tornata elettorale e può vantare un notevole “rainbow factor” calcolato dal progetto “A far l’Europa comincia tu” dell’Arcigay. Secondo Lei dovrebbero esistere dei diritti specifici per la comunità LGBT oppure tali diritti devono essere eguali a quelli garantiti agli eterosessuali? È favorevole anche ai matrimoni e alle adozioni per le coppie omosessuali? Pensa che a legiferare su questi temi debba essere il Parlamento Europeo oppure i parlamenti nazionali devono essere liberi di decidere autonomamente?

Credo che il punto vero sia l’uguaglianza e la parità dei diritti fra i cittadini. Si può ottenere in vario modo e penso che i Parlamenti nazionali debbano avere un grado di autonomia. Credo però allo stesso tempo che perlomeno l’adozione dei figli nati da precedenti relazioni eterosessuali così come la portabilità fra i Paesi dell’Unione di alcuni diritti provenienti da un matrimonio o da un’unione civile contratta in un determinato Stato membro debbano essere garantiti dalla legislazione comunitaria. L’Italia deve al più presto rimediare alla sua assenza di tutele per le coppie omosessuali attraverso l’istituzione del matrimonio o di un’unione civile che garantisca i medesimi diritti: non mi appassiona la questione nominalistica sulla denominazione dell’istituto giuridico.

Anche alla luce delle dichiarazioni di Van Rompuy, il quale ha ammesso che il Parlamento Europeo conta ben poco, in quanto le vere decisioni vengono prese da altre istituzioni come il Consiglio Europeo da lui presieduto e dai mercati finanziari, perché recarsi alle urne alle elezioni europee del 25 maggio e votare Partito Democratico – PSE?

Van Rompuy è presidente del Consiglio Europeo. È naturale che tenda a difendere le prerogative dell’anima intergovernativa dell’Unione, della quale l’organo che lui presiede è espressione. La verità è che esiste un rapporto dinamico fra i vari organismi dell’Unione Europea. In seguito al Trattato di Lisbona il Parlamento ha di fatto assunto maggiori prerogative che in precedenza, partecipando attivamente, attraverso la procedura di codecisione con il Consiglio, al processo legislativo, avendo la facoltà di eleggere il presidente della Commissione, pur su proposta del Consiglio, e in molti altri aspetti della vita delle istituzioni europee. È chiaro che non c’è nulla di scontato in questo incremento dell’importanza del Parlamento. La sua importanza varia in conseguenza della concreta dialettica dei poteri che è in atto nell’Unione. Da questo punto di vista non c’è dubbio che votare alle elezioni europee, e votare per il partito – per il PSE in Europa e il PD in Italia – che più convintamente sostiene l’accrescimento del ruolo del Parlamento, rappresenta un contributo importante in questa direzione.




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