“La mia preoccupazione è questo tumore cominci a prendere il cervello e non sono più nelle condizioni di intendere e volere. Voglio decidere di smettere di vivere quando non potrò più fare le semplici cose che faccio adesso”.
Da sempre, la richiesta di poter porre fine alle proprie sofferenze, sia rifiutando l'accanimento terapeutico che ricorrendo all'eutanasia legale, si scontra con la convinzione di chi ritiene che la vita sia un dono, che in fin dei conti non ci appartenga e che quindi non può essere rifiutata.
Diciamo subito che questa posizione, che spesso appartiene a chi professa una religione, tipicamente quella cattolica, non è sbagliata o contraria ai principi di umanità in senso assoluto. Nessuno di costoro che rifiutano l'eutanasia o la cessazione delle cure desidera veder soffrire i malati o infliggere loro sofferente supplementari. E' solo che la loro fede, le loro convinzioni, inevitabilmente influenzate dalla religione, impediscono loro di infliggere la morte sotto qualsiasi condizione, sia attivamente con l'eutanasia, sia passivamente con il rifiuto di cure e idratazione. E' da notare, però, che la recente morte del cardinal Martini è avvenuta, secondo quanto riporta la stampa, con il rifiuto delle cure [vedi, Il Giornale, Martini, il rifiuto delle cure riaccende il dibattito; Lettera 43, Il card. Martini rifiuta le cure; Il Fatto Quotidiano, Martini non ha rifiutato l”accanimento’, ma le cure salvavita]. Questo apre qualche spiraglio all'interruzione dell'accanimento terapeutico, dal quale però si esclude la nutrizione e l'idratazione, insieme all'eutanasia. Il tema della libera scelta, sia nella vita come nella morte, quelle che sul sito Eutanasia legale chiamano "le nostre scelte, drammatiche e felici. Fino alla fine", per impedire "che siano altri a decidere per noi, in nome di Stati o religioni; per garantire libertà e responsabilità alle nostre scelte" è da sempre un rovello degli uomini. Entrambi, pro e contro l'eutanasia, ne fanno una battaglia di rispetto umano e civiltà e molti, da ambo le parti, sono portatori di buonafede e reale rispetto per la vita altrui. Qual è la posizione migliore? E' sufficiente dire che la vita è una proprietà personale e che appartiene all'individuo il quale, dove sono rispettati i diritti umani, è libero di scegliere se farsi curare o meno, di rifiutare nutrizione e idratazione e di avere accesso all'eutanasia? Oppure è più forte la posizione di chi difende la vita fino allo stremo, anche contro la volontà del soggetto, curando finchè permane una scintilla di vita?