Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio, diceva un giovane Vincent Cassel, raccontando la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani e, piano dopo piano, ripete a sé stesso: fino a qui tutto bene. Se però quella storia anziché essere inserita nella pellicola di Mathieu Kassovitz avesse preso parte in quella di Baltasar Kormákur, la questione sarebbe stata abbastanza simile, ma differente: con lo stesso uomo che anziché cadere da un palazzo, intento a scalare il monte Everest, passo dopo passo, avrebbe intuito che in realtà, più di qualsiasi altra cosa: il problema non è la salita, ma la discesa.
Scalare la montagna più alta della terra è un impresa per pochi e chi c'è riuscito, mettendo a rischio la propria vita, non l'ha fatto di certo affidandosi alla fortuna o a qualche forma divina che potesse proteggerlo. Per salire in cima all'Everest ci vuole esperienza, preparazione, concentrazione e non è detto che pur avendo il pacchetto completo a disposizione il nostro corpo resista al freddo e alle sue conseguenze, permettendoci quindi di toccare la vetta. Nonostante questo - e Kormákur ce lo comunica al posto dei titoli di testa - da un po' di anni team specializzati offrono la possibilità a persone comuni di realizzare il loro sogno: provare a misurarsi con la natura e, se predisposti, resistere ad essa conquistandola, come all'uomo tendenzialmente piace pensare e fare. Questi gruppi, neanche a dirlo, sono guidati da esperti scalatori organizzati, che mettono in cima alle loro priorità quello di non perdere alcuno dei partecipanti, aiutati da un personale altrettanto competente a cui fare riferimento per assistenza e consigli climatici nel corso del viaggio. Nella testa di chi si aggrega a loro - che siano bene o male anch'essi esperti in materia - circolano tuttavia motivazioni fin troppo intime e personali, troppo massicce da poter essere abbattute da quel ragionevole spirito di sopravvivenza, per cui, la conseguenza, è che, a volte, c'è chi preferisce spingere al massimo le proprie capacità, piuttosto che capire i limiti e fermarsi.
Ed è da questo grande dettaglio che nasce "Everest", storia vera, che non poteva essere altrimenti. Non ci sono calcoli infatti nella pellicola di Kormákur, non ci sono protagonisti, né tantomeno prediletti, tutto è in mano all'unica, spettacolare, imponente bellezza che tiene in mano le redini (e le vite) dell'avventura, colei a cui, come dicono apertamente, appartiene stabile l'ultima parola: la montagna. Naturalezza che gli permette di affermarsi come un survival movie d'altri tempi, uno di quelli che oggi rischiano di essere considerati troppo reali e precisi per appartenere ad un cinema sempre più attratto dal genere disaster e dalla sovrabbondanza della computer grafica.
Ma al contrario di quanto si pensi, il rispetto e l'approccio autentico che "Everest" utilizza, attraverso un esposizione così ferrea ed equilibrata, fanno in modo che il suo intero sforzo in sottrazione vada a compattarsi e a porsi su di un livello nettamente superiore alla media, raggiungendo quel tipo di risultato così impressionante e verosimile da conquistare lo spettatore, rendendolo complice.
Nessun sottotesto o secondi fini, quindi, a comandare è la realtà dei fatti. Perciò spaventarsi, preoccuparsi, stare in ansia e commuoversi sono comportamenti assolutamente comprensibili, di fronte agli esiti arbitrari e imparziali di un qualcosa tanto affascinante quanto impetuoso. Di fronte a quel gigante ghiacciato da cui persino Kormákur ha deciso di lasciarsi trasportare, senza opporre resistenza, portando a casa una pellicola con qualche piccolo graffio, ma dal sapore trionfante.
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