La ricerca – pubblicata il 31 ottobre scorso sulla rivista NeuroImage: Clinical, Vol. 3, 2013, pag. 450-461 – aveva lo scopo di indagare la capacità attentiva di pazienti diagnosticati “vegetativi” o “di coscienza minima” nei riguardi di determinati stimoli uditivi (parole-target), inseriti casualmente in una serie di distrattori (parole irrilevanti).
Sono state analizzate le “risposte” elettroencefalografiche di 21 pazienti cerebrolesi, 9 con diagnosi di stato vegetativo e 12 con diagnosi di coscienza minima. Solo uno dei 21 pazienti è stato in grado di filtrare le informazioni rilevanti da quelle irrilevanti. Inoltre, alla risonanza magnetica funzionale (fMRI, Functional Magnetic Resonance Imaging) lo stesso paziente – “comportamentalmente vegetativo” – mostrava una “consapevolezza” volitiva nell’eseguire semplici comandi di immaginazione motoria nel gioco del tennis. Gli scienziati hanno anche scoperto che, nonostante la mancanza di discriminazione degli stimoli-target, altri tre pazienti in stato di coscienza minima reagivano a parole nuove, seppur irrilevanti.
“Non solo abbiamo trovato il paziente che ha avuto la capacità di prestare attenzione – ha dichiarato Chennu – ma abbiamo ottenuto prove indipendenti per lo sviluppo di una tecnologia del futuro che possa aiutare i pazienti in stato vegetativo a comunicare con il mondo esterno.” Nonostante il contributo notevole e straordinario della ricerca di Chennu & coll., il livello di consapevolezza reale nei pazienti con danni cerebrali gravi rimane un campo di indagine complesso e difficilissimo, oltre che palesemente tragico per la vita – e la qualità di vita – di questi malati. Senza alcuna ambizione di valutare o discutere lo sforzo assolutamente titanico della ricerca diagnostica nei disturbi cronici di coscienza, la rilevanza – anche etica – di questo genere di studi invita comunque ad alcune considerazioni di fondo, in parte ignorate nel dibattito pubblico.
Praticamente sconosciuto fino a qualche tempo fa in quanto prodotto della rianimazione e della terapia intensiva, lo stato vegetativo (Vegetative State, VS) è una condizione clinica di veglia senza alcun segno apparente di consapevolezza di sé o dell’ambiente circostante. Benché gli occhi siano aperti nella veglia e chiusi nel sonno, il respiro spontaneo e la funzione autonomica preservata, nessun tipo di espressione o comprensione linguistica, nessuna risposta volontaria o intenzionale, riproducibile e continua viene data a stimoli uditivi, visivi, tattili o dolorosi. Diversamente, lo stato di coscienza minima (Minimally Conscious State, MCS) riguarda quei pazienti che scarsamente reattivi agli stimoli e con danno neuronale globale mostrano segni distinguibili di consapevolezza, seppur intermittenti e limitati.
La diagnosi di VS e MCS è effettuata solo dopo un’attenta valutazione del livello di consapevolezza del paziente; tale valutazione è necessariamente inferenziale data l’oggettiva impossibilità di valutare in modo diretto la coscienza di una persona. I limiti di tali stime sono noti e frequentemente sottolineati dal mondo scientifico. Si calcola ad esempio che il 40 per cento circa delle diagnosi di stato vegetativo sia inattendibile. Inoltre, “anche in una corretta diagnosi differenziale tra VS e MCS, sembra plausibile ipotizzare che vi siano persone in grado di ‘fare qualcosa’ e altre che non lo sono”: John Whyte, primo ricercatore presso il Neuro-Cognitive Rehabilitation Research Network, e il suo team hanno infatti dimostrato la grande individualità che caratterizza ciascun paziente, anche nelle risposte farmacologiche. La ricerca di Chennu & coll., pocanzi illustrata, ne è peraltro un’autorevole conferma.
Vi è poi la questione cruciale della prognosi, ovvero della possibilità di recupero di consapevolezza da parte del paziente. L’impegno per le risorse logistiche, del personale (assistenza riabilitativa, paramedica, e medica) e dei costi necessari per la gestione di questi pazienti è imponente. Se si considera che la mortalità è dell’ordine del 3-50% a seconda dell’eziologia e il recupero di coscienza è del 50-60% nei primi 3-4 mesi per diventare sempre più raro con il passare del tempo, la necessità di una prognosi precoce è pertanto obbligatoria sia per gli approcci terapeutici necessari che per la qualità di vita del paziente e dei famigliari. Tuttavia, ancora nessun modello prognostico risulta idoneo ad una corrispondente generalizzazione.
In tutto questo i metodi del brain imaging sembrano rappresentare una delle soluzioni più promettenti e dunque praticate nella valutazione del grado di consapevolezza VS e MCS. Secondo l’ipotesi che l’attività cerebrale sia direttamente legata alle variazioni di parametri fisiologici come ad esempio il flusso sanguigno, la tecnologia del neuroimaging permetterebbe di “visualizzare” il cervello in vivo sia strutturalmente (anatomia) che funzionalmente (fisiologia). E, nel nostro caso, di individuare quelle attività cognitive altrimenti latenti nei test VS e MCS tradizionali.
Nonostante ciò e nonostante il successo letteralmente esplosivo (e per alcuni sospetto, si veda V. Biasi, ECPS Journal – 1/2010) nel campo delle neuroscienze, le tecniche del brain imaging sollevano rischi e criticità epistemologici tutt’altro che secondari. Problematiche come il “riduzionismo materialistico” (l’imaging è un’inferenza e non il cervello, né tantomeno la coscienza; cfr., Legrenzi & Umiltà, Neuro-mania, Il cervello non spiega chi siamo) o la “deviazione frenologica” dell’organizzazione cerebrale (l’errata correlazione area cerebrale/funzione conduce ad identificare locus lesionato a deficit funzionale; cfr., Kosslyn, If Neuroimaging is the Answer, what is the Question?) costituiscono costanti esempi di semplificazioni o sottovalutazioni della varietà e complessità della vita psichica. Scrive infatti Biasi: “Gli studi correlazionali ci possono dire, per fare un esempio, che alcuni neuroni si attivano in corrispondenza di un comportamento, come un semplice gesto o l’azione più complessa del risolvere un problema matematico, ma non abbiamo facoltà di concludere che quel neurone produce in modo deterministico la soluzione.”
A questo punto, i rilievi svolti sinora circa lo stato della ricerca nei pazienti “vegetativi” o di “coscienza minima” provocano domande e perplessità consistenti. Ad esempio, su quale base alcuni Paesi possono revocare la nutrizione artificiale a persone in VS anche senza una direttiva anticipata di trattamento, o testamento biologico? sulla base del neuroimaging? sulla diagnosi? sulla prognosi, o sul livello di coscienza “misurato” al capezzale del malato? Come mai diversi studi raccomandano la cautela nell’utilizzo clinico di PET (Positron Emission Tomography/Tomografia a emissione di positroni) o fMRI – in quanto meri strumenti di ricerca – mentre la gran parte dei pazienti irreversibilmente vegetativi viene a tutt’oggi classificata (anche da PET o fMRI) priva di coscienza, e per questo incapace di provare dolore o sofferenza, piacere e desiderio? Se sono giustamente considerate “strumentali” le risposte corticali a stimoli verbali nei pazienti con gravi disturbi di coscienza, perché non dovrebbero esserlo anche nella prognosi di irreversibilità dello stato vegetativo? Per di più, è plausibile la standardizzazione di test e scale di misura data l’evidente individualità delle risposte corticali e non? È così azzardata l’idea che, benché consapevoli, i pazienti VS non sono in grado di comprendere o rispondere (come nei casi di afasia o di depressione catatonica, o di diffuse lesioni dopaminergiche) a test, forse inadeguati?
Nell’incertissimo – e a questo punto trasversale - ex informata conscientia, qualsiasi ricorso prudenziale e di tutela delle persone in stato vegetativo dovrebbe costituire uno dei più praticati ed immutabili doveri etici fondamentali.