Doveva essere Argentina – Brasile. Fino ai quarti di finale, infatti, le squadre sudamericane avevano disputato un buon Mondiale e apparivano tra le migliori di Sudafrica 2010. Diego Armando Maradona, allenatore della Nazionale argentina, ne era stato addirittura assoluto protagonista, sottraendo la scena e le prime pagine dei giornali a tutte le vere o presunte attese stelle della competizione e prima di vedere la sua Argentina crollare contro la Germania. Carlos Dunga appariva capace di guidare alla finale il Brasile peggiore della storia, il Messico di Aguirre e il Cile hanno giocato un calcio forse poco concreto, ma spettacolare. Il Paraguay ha fatto fuori l’Italia e con i “se” non si arriva da nessuna parte, ma se Cardozo avesse calciato meglio quel calcio di rigore probabilmente questa sera si giocherebbe un’altra finale. Ad ogni modo, alla fine queste squadre sono state tutte più o meno giustamente eliminate e ridimensionate in una edizione del Mondiale, quella sudafricana, che, tranne un’unica eccezione, ha sancito il successo del calcio europeo.
Ci eravamo dimenticati di Óscar Washington Tabárez da Montevideo, l’allenatore dell’Uruguay tornato finalmente grande dopo trent’anni. Tanti ne sono passati infatti da Messico 70, l’edizione Mondiale passata alla storia per Italia – Germania 4 a 3 e che vide la Nazionale uruguayana sconfitta solo alle semifinali da una delle squadre più forti della storia del calcio (il Brasile di Pelè, Rivelino, Jairzinho e Tostão) e poi classificarsi al quarto posto dopo aver perso anche la “finalina”, ieri come oggi, contro i tedeschi. Sono passati troppi anni da quando Óscar Washington Tabárez faceva giocare un calcio spettacolare e allo stesso tempo efficace al miglior Cagliari di tutti i tempi – se escludiamo quello di Gigi Riva, Albertosi, Cera e Scopigno naturalmente. Erano gli anni in cui in Italia cominciava il dominio della Juventus di Lippi e della triade e i punti di forza di quel Cagliari si chiamavano Pancaro, Villa e Firicano, Herrera, Sanna, Bisoli e Allegri (gli ultimi due nemmeno troppo a caso attuale allenatore e ex allenatore dei rossoblu), soprattutto Muzzi, Luis Oliveira e Dely Valdès, una sorta di anticipazione del tridente Cavani – Suárez – Forlán, che tanto ha fatto bene con l’Uruguay in quest’ultimo Mondiale. A fine campionato il Cagliari raggiunse il nono posto, sfiorando nei fatti la qualificazione alle Coppe europee, e l’ottimo campionato dei sardi valse a Tabárez, che comunque aveva alle spalle già trascorsi importanti su panchine prestigiose quali quelle del Boca Juniors, del Peñarol e proprio della Nazionale uruguayana, la chiamata del Milan, che lo mise sotto contratto per la stagione 1996/97, salvo poi mandarlo via troppo presto e giusto in tempo per richiamare Arrigo Sacchi e darci modo di ammirare tutta la competenza calcistica del solito Berlusconi: “Tabárez? E chi è, uno che canta a Sanremo?” Qualche anno dopo Tabárez ritornò a Cagliari, ma questa seconda esperienza fu decisamente meno fortunata della prima e si concluse dopo poche giornate di campionato.
Ci eravamo dimenticati di Óscar Washington Tabárez, perché un allenatore preparato e una persona intelligente come lui ci appaiono lontani anni luce da un mondo del calcio – da un mondo – dove si dà più importanza ai numeri e alle statistiche piuttosto che ai fatti. Tabárez, degno appartenente a una categoria – quella degli allenatori sudamericani – generalmente in Europa troppo poco conosciuta e invece molto sottovalutata, è “El maestro”, perché insegnante lo è stato per davvero negli anni tra la sua carriera di giocatore e quella di allenatore, e perché è uomo di cultura e di una intelligenza sottile che trova pochi pari tra i suoi colleghi. Tabárez è amico e appassionato estimatore delle opere di Eduardo Galeano, cita Vittorio De Sica, Vargas Llosa. A Cagliari lo avevano ribattezzato “Il filosofo”. Ci eravamo dimenticati di lui, ma anche questa volta El maestro ha fatto bene il suo lavoro e ha condotto l’Uruguay, selezione rappresentativa di una Nazione di circa quattro milioni di abitanti, a raggiungere obiettivi e risultati impensabili alla vigilia del Mondiale, soprattutto se consideriamo che la qualificazione della “celeste” è stata abbastanza travagliata ed è arrivata solo all’ultimo, grazie alla vittoria nel doppio spareggio contro la Costa Rica.
Non è una squadra di grande qualità, questo Uruguay. Ma ha una organizzazione tattica e una tenacia degna della grande tradizione calcistica di questo paese. Ha giocato un calcio semplice: una difesa a tre, dove ha giganteggiato Diego Lugano, purtroppo assente per infortunio nella semifinale contro l’Olanda, e hanno fatto bene Godín e Victorino, due infaticabili esterni di centrocampo – bene ha fatto soprattutto Maximiliano Pereira del Benfica – e nel mezzo due centrocampisti forse poco belli da vedere, ma efficaci e pronti nel rilanciare l’azione, quali Diego Pérez del Monaco e Arévalo. In avanti hanno dato spettacolo l’infaticabile Cavani del Palermo, il bomber Suárez e la stella Forlán, con cinque reti realizzate ad oggi capocannoniere del Mondiale e grande trascinatore della “celeste”. Proprio Forlán è stato in assoluto uno dei migliori giocatori (il migliore?) visti in Sudafrica e ieri autore di un goal spettacolare che per un po’ ha tenuto vive le speranze dell’Uruguay nella finale per il terzo posto che vedeva i sudamericani contrapposti alla Germania. Alla fine l’ha spuntata proprio la squadra di Joachim Löw, che ha vinto 3 a 2 e si è confermata squadra solida e dalla ottima organizzazione di gioco. La Germania ha meritato di finire sul podio, non si raggiungono un secondo posto e due terzi posti consecutivi per caso, ma ci sono almeno quattro milioni di motivi per rendere il giusto riconoscimento a Tabárez e la sua squadra.
La finale di questa sera mette di fronte due squadre che non hanno mai vinto la coppa. Gli spagnoli di Vicente del Bosque, allenatore meno sprovveduto di quanto possa apparire, appaiono favoriti contro una Nazionale, quella olandese, meno spettacolare che in passato, ma cinica e comunque forte della presenza di due giocatori, Robben e Sneijder, che questa stagione hanno dimostrato di saper fare la differenza. Manca agli olandesi un grande leader difensivo, un Ruud Krol, un Ronald Koeman o almeno un Frank de Boer (assistente dell’attuale tecnico Bert van Marwijk), il migliore van Persie, fino a questo momento protagonista di prestazioni al di sotto delle sue potenzialità, e soprattutto qualità tale da mettere in difficoltà le grandi capacità tecniche dei giocatori spagnoli. Nei fatti, la storia delle ultime stagioni insegna che metterla sul piano del gioco e del possesso palla contro gli spagnoli – siano questi le “Furie rosse” o il Barcellona, matrice e modello della Nazionale iberica – è inutile. Xavi, Busquets, Xabi Alonso, Piqué e soprattutto Iniesta, protagonista di un grandissimo Mondiale, sono più forti. Sarà bene per gli olandesi cercare di emulare l’Inter della doppia semifinale contro i blaugrana e, piuttosto che sperare in un calcio spettacolare, affidarsi al dinamismo e alla solidità dei vari van Bommel (altro grande protagonista di questo mondiale), de Jong, Kuijt e Heitinga, cui spetterà il gravoso compito di arginare il calcio degli spagnoli, per mettere nelle condizioni Robben e Sneijder di mettere a segno le giocate tali da decidere le sorti della partita.
Dice bene Johann Cruijff. La leggenda del calcio olandese, spettatore interessato della finale dato che tutto sommato il Barcellona – e di conseguenza il calcio della Nazionale spagnola – lo ha inventato lui, ha dichiarato di tifare Olanda, ma che alla fine saranno gli spagnoli a prevalere.
Questa volta mi guardo bene dall’andare contro i pronostici di un gigante del calcio mondiale e faccio mio il suo punto di vista… Tuttavia è pure vero che il calcio è un gioco semplice e qualche volta, non sempre, non vincono i più belli, ma i più brutti e i più cattivi. Chissà che anche questa finale non ci servirà di lezione.
Ernesto Battaglia