Ed ecco che mi scopro a colpevolizzarmi inutilmente, come al solito.
Mi spiego meglio, che forse è il caso.
Da qualche tempo ho deciso di fare la cosa che volevo fare da quando ho memoria: scrivere.
Raccontarmi, raccontare quello che vivo, come lo vivo, quello che vedo, come lo vedo, descrivere le persone che mi sono capitate davanti, che ho conosciuto, che ho solo intuito, che non conoscerò mai.
Parlare delle loro storie, confonderle con le mie, vedere vivere quelle storie, riscrivere il futuro delle persone o inventargli un passato nuovo.
Purtroppo avevo scelto, per farlo, la forma del romanzo.
Dico purtroppo perchè, dopo i primi capitoli, mi ero trovato in una fase di stallo: non riuscivo più a proseguire la narrazione perchè non mi interessava più quella storia. Certo, trovavo ancora interessanti alcuni momenti successivi, qualcosa che sarebbe successo verso la fine, ma a conti fatti ero a un punto morto.
Stavo raccontando una storia che rischiava di annoiare me per primo e mi sentivo in colpa per questo, pensavo di essermi lanciato nell'ennesima impresa fallimentare.
Poi ho capito che avevo solo frainteso quello che dovevo fare: non il dover scrivere, quello credo ancora che sia un mio imperativo, però non dovevo pensare a un romanzo.
Dovevo scrivere dei racconti.
Infatti, rileggendo i capitoli già scritti, mi sono reso conto che ognuno di loro avrebbe potuto tranquillamente
reggersi sulle sue gambe e comunicare qualcosa anche da solo.
E mi è diventato chiaro che non facciamo mai la cosa sbagliata.
Facciamo sempre la cosa giusta, ma la facciamo nel modo sbagliato, nel momento sbagliato, con le intenzioni sbagliate, con le persone sbagliate.
Tutto sta a capire che la parte inadatta non è mai nella cosa che facciamo, ma nel contesto in cui la facciamo.
E sapete cosa? Credo che sia un ottimo spunto per un racconto.