Magazine Cultura

Fabbricanti di Armonie, un’intervista

Creato il 27 marzo 2013 da Faprile @_faprile

Intervista all’attore e regista Simone Franco per lo spettacolo Fabbricanti di Armonie svoltosi domenica 24 febbraio a Lecce presso il Teatro Paisiello e riguardante l’opera del poeta Antonio L. Verri. Intervista pubblicata su Il Paese Nuovo sabato 23 marzo 2013.

di Francesco Aprile

Domenica 24 marzo, all’interno del cartellone Teatro a 99 Centesimi, va in scena lo spettacolo Fabbricanti di Armonie, prodotto dall’Associazione Culturale Multidisciplinary, per la regia dell’attore Simone Franco che sarà accompagnato da Admir Shkurtaj alla fisarmonica col suo percorso di suoni che fondono nella contemporaneità la tradizione musicale dell’Albania, Pino Basile coi suoi strumenti effimeri e tamburi a frizione, le elaborazioni di Pierpaolo Leo all’Onde Martenot (particolare elettrofono a tastiera). In questa miscela di suoni s’inserirà la voce di Simone Franco su di una scena scarna, minimale, dove protagonisti saranno i suoni, la voce, similmente a quella poetica verriana che spesso appare come una poetica dei suoni, o dell’ascolto, e che dall’ascolto trae e crea visioni, come a partire dal “sibilo lungo” o dal discorrere del poeta “mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento” (Verri, La Cultura dei Tao). La scena sarà caratterizzata dalla presenza di sarmenti, e alcuni oggetti provenienti dal Gabinetto di Scienze Naturali dell’Istituto Tecnico Economico Costa di Lecce.

 

Direi di partire dalla necessità di un recupero dell’opera poetica di Antonio Verri oggi, anche attraverso forme diverse da quelle che possano essere strettamente letterarie, poetiche o critiche, quindi passando attraverso percorsi differenti come quello che tu stai articolando.

Iniziamo col dire che io da diversi anni mi dedico alla poesia, in particolare all’aspetto della phoné, cioè del come si articola la poesia, quindi ho iniziato frequentando una serie di laboratori, tra cui quello di Carmelo Bene sul verso poetico di D’Annunzio ne “La figlia di Iorio” e poi seguendo un percorso fuori dalle accademie, ho praticato relazioni con musicisti, quindi con la musica, ma anche con altre arti. Mi trovo a mio agio con i musicisti perché sono linguaggi che si possono incontrare, la poesia e la musica. Perché la necessità di Verri, oggi. Ricorre il ventennale della morte, ma intendiamolo come data fra le altre, in realtà il ventennale corrisponde ad una mancanza, alla mancanza di una voce nel nostro territorio, quella di Verri che, invece, negli anni di massima produzione ha avuto la diffusione della poesia come uno dei punti nodali del suo discorso, in relazione, ed anche questo è un punto importante, quindi in relazione ad amicizie, anche se delle volte l’amicizia è sottoposta a delle dure polemiche, ma questo è nel nostro animo, nella nostra radice greca, in quel punto in cui la polemica è una componente essenziale di una buona relazione. Che cosa manca oggi. Manca una voce di quella rilevanza di quella portata, che cavalcando gli anni ’70 e ’80 ha introdotto in un territorio come il nostro “un punto fermo”, come ha ribadito nel Quotidiano dei Poeti, nel Pensionante, e più volte nei suoi scritti, e non solo quelli a carattere più strettamente artistico, ma anche in quelli di tipo politico-ideologico, che bisogna “Rimboccarsi le maniche” come diceva citando Fiore, in questa nostra “gatta da pelare” che è la provincia. Cosa manca ancora oggi: non solo una figura come Antonio, questa figura poetica, capace di una scrittura così densa di significati e così attenta alla sonorità della nostra lingua o addirittura di una lingua che si inventa, o che si reinventa, e che in qualche modo si tradisce partendo proprio dalla tradizione, è a questo proposito che mancano le voci, al riguardo di una lingua attenta alle sonorità, mancano le voci che si interroghino e confrontino su queste sonorità, con questa scrittura così densa e sofferta, mancano voci che abbiano saputo dare suono a queste parole, che abbiano saputo leggere, perché non è facile la lettura. La lettura infatti non è una spiccata dote dell’attore, l’attore deve faticare molto di più nella lettura piuttosto che nella enunciazione. Sarei felice se ci fossero altri, se ci fossero più persone a tentare ciò, magari per confrontarsi sempre su di una ricerca rigorosa. So che c’è stata una esegesi delle opere di Antonio, che ha avuto anche una cura sublime dell’oggetto-libro, però c’è da dire che non serviva, non serve e non servirà solo l’aver preservato ciò, l’averlo custodito, perché il problema principale è quello di una diffusione che possa andare oltre le nostre Colonne d’Ercole, che come anche lui e molti altri poeti, Carmelo Bene, Vittore Fiore ecc, hanno indicato come Colonne d’Ercole il muretto a secco e l’ulivo, verso cui c’è il mio antico rispetto e grande considerazione. Che cosa voglio dire, che Antonio non è conosciuto, non è diffuso, malgrado i suoi sforzi negli anni ’70 e ’80 di allacciare relazioni anche attraverso un foglio di poesia e con l’aiuto di amici e nuove collaborazioni diffonderlo in diverse città, dunque attraverso questa rete, reale, che corrisponde ad amicizie vere, che si inserisce all’interno di una delle espressioni migliori della nostra tradizione, quella della riviste letterarie, da Comi a Bodini a Pagano ed anche Verri, ecco che tutto questo non è stato sufficiente.

È vero che Verri ha saputo tessere trame, incontri, relazioni, è anche vero che attraverso queste relazioni e la sua opera poetica ha tentato l’uscita, l’oltrepassamento di queste Colonne d’Ercole, infatti durante un dibattito nel 1992, un omaggio a Vittore Fiore, tenne un discorso dicendo «Noi non siamo più come i Ciardo, i Suppressa, che prendevano il trenino della Sud-Est per andare a trovare Girolamo Comi a Lucugnano. Per noi, adesso, è essenziale prendere l’aereo per andare a Parigi o negli Stati Uniti […] noi dovevamo abbattere i muretti a secco», e a questo proposito c’è un testo, secondo me che segna una svolta, che è la Cultura dei Tao, un testo nel bilico della sua scrittura in cui quando dice “al mondo stiamo per cercare”, attuando questa ricerca sui dialetti, per certi versi pasoliniana, tenta un recupero per aprirsi di fatto al mondo, un conoscere da dove si viene per tessere relazioni che siano altre e farsi mondo. È sempre Verri che nei Tao scrive “i proverbi mi aprono al mondo”. Forse quello che è mancato, che forse manca ancora oggi, è l’apporto istituzionale, la totale assenza accademica, il vuoto universitario, che non è una carenza recente, ma viene da lontano.

Su questo mi trovi d’accordo. Ora, io non voglio fare sempre il solito discorso Nord-Sud, ma questo è un anno di anniversari importanti, e dico questo così allarghiamo il discorso, ad esempio Gadda. Cos’hanno fatto da questo punto di vista? Cosa è stato fatto? Se c’è un interesse così forte attorno alla poetica di Verri perché non inserirlo all’interno di un discorso più ampio, compararlo. Ad esempio hai citato Pasolini, ma anche Gadda andrebbe preso in esame per vedere questa tensione nella scrittura  e nella lingua di Verri.

Da quel punto di vista è possibile considerare l’opera di Verri come un meltingpot letterario che accumula, fonde, mescola ed arriva ad altro. Attinge ad esempio dalle esperienze di Vincenzo Consolo e Stefano D’Arrigo, dalla loro manipolazione della lingua.

 

Ed è una scrittura che secondo me può trovare spazio e forma proprio in teatro, nella relazione con la musica, perché all’interno ha una sua musicalità; mi viene in mente la variante d’autore in chiusa del Fabbricante di armonia, mi viene in mente il capitolo quinto della Betissa, e tutta una serie di sonorità che si prestano ad atti fonici, ritmici, e trovano corrispondenza nella musica.  Più che rappresentare, scomodando il caro Carmelo che ogni tanto va bene in molti contesti ed era anche un punto di riferimento di Antonio Verri, è necessario scardinare la rappresentazione attraverso che cosa, attraverso una voce che parla, è questo che sarà il nostro lavoro. Essere parlati, di questo si tratta. C’è una scrittura di Antonio che da una parte si articola in una possibile narrazione, salvo poi il subentrare di queste figure, come i Tao, salvifiche, delle volte, dall’isolamento in un paese, in una casa, in quattro mura, e ti avvicinano ad un sentire altro, diverso da quello a cui uno è destinato.

C’è in Verri, oltre ad un recupero della lingua per approdare ad altro, uno svolgersi letterario che è una sorta di poetica degli archetipi, un prodursi attraverso elementi che sostanziano il vissuto umano da sempre, questa sua tensione al cielo ad esempio, questo mirare il mare, questo sguardo che tende l’uomo a qualcosa che supera o dovrebbe superare l’uomo stesso.

 

C’è una teatralità ed un aspetto tragico in questa o queste tensioni di Verri, penso al Galateo, al monologo finale del Fabbricante di armonia, che dopo le burrasche di Napoli, le accuse ingiuste, torna nella sua terra. C’è in quel monologo una teatralità quasi archetipa, ma che può essere quasi una tragedia greca, un personaggio che viene avanti e dichiara il suo amore verso questa terra, è in quelle parole, in quelle sonorità, in quel rapporto col mare, ma anche con la morte, è in quelle parole che c’è tutto, tutto il rapporto con queste contrade, questa terra, terra madre, e la letteratura, la poesia, c’è questo filo, questo percorso, attraverso cui ho cercato di identificarmi, percorrendolo nel rapporto che vede la terra come madre. È in questa linea che mostra di vivere e si vive un rapporto di sano conflitto con la propria terra. Questa è una lezione che può arrivare a noi ancora oggi con quello sforzo, con quella cura e ricerca della parola, meticolosa, una esigenza e una condanna ad essere parlati, e parlati da più voci. È una scrittura che diventa terapeutica per sé e spero anche per altri, per chi voglia prestare ancora ascolto, perché il nodo principale è come si ascoltano ancora certe cose, come si dicono, e mi viene in mente Zanzotto – che sicuramente sarà stato tra i suoi riferimenti – ma anche il rapporto col dialetto, il Galateo nel bosco, ed è Zanzotto che in una lezione sulla “Beltà”, con Albertazzi che lo intervistava, disse che cosa è la lettura, la lettura come una invenzione della poesia, cioè tutto ciò che la poesia non dice, è quello sforzo estensore del verso, perché il lettore è troppo poco, e questi sono punti fissi che bisogna rendere alle nuove generazioni. Quali sono i punti fissi del tempo in cui viviamo: lo scardinamento della parola di Antonio, e lo scardinamento della rappresentazione di stato di Carmelo, poi ce ne possono essere altri, che vanno ad intersecarsi, ad esempio Vittorio Pagano ed il rapporto col merso metrico e le traduzioni.

20130323 intervista simone franco-7


Archiviato in:Frammenti

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :