Una persona semplice, capace di raccontare le complicazioni e i paradossi del vivere in modo autentico e originale. Un uomo che ama scrivere perché ama vivere, questo mi è sembrato Fabio Genovesi, fantasioso autore di Chi manda le onde (qui la recensione del libro), vincitore del Premio Strega Giovani lo scorso 8 giugno e tra i cinque finalisti dell’edizione 2015 del Premio Strega la cui serata finale è prevista per giovedì 2 luglio.
Ho incontrato Genovesi, toscano classe 1964, per capire come nasce il successo dei suoi libri, capaci di mettere d’accordo critica e pubblico e che regalano divertimento ed emozioni e sono stata felice di incontrare un uomo con le passioni della gente comune e con il dono di saperle raccontare.
Fabio, che effetto ti fa essere tra i finalisti del Premio Strega?
Sono contento, pensa che io non ho vinto mai nessun premio, né sono stato candidato, questa è la prima volta. Credo che ci siano scrittori che scrivono per i premi e per la critica, io quando scrivo, invece, penso solo a chi legge, quindi essere chiamato a un premio così importante mi rende ancora più felice.
Come è nato Chi manda le onde?
Ci ho messo quattro anni perché per me la scrittura non è compilare schede per ogni personaggio e stabilire una griglia per la storia, così sarebbe un lavoro da questura più che da scrittori; il risultato di tanta organizzazione non potrebbe che essere una storia in cui alla fine tutto torna, perché già tornava nei piani iniziali, ma sarebbe solo finzione. La mia ambizione, invece, è scrivere un romanzo che sia come la vita, assolutamente imprevedibile.
Io parto da tantissimi personaggi che mi hanno affascinato nel tempo, venti, forse trenta, li metto insieme e scrivo di tutti, poi mentre scrivo nascono idee e scopro come sono legati tra loro.
Quindi tu all’inizio non hai una trama?
No, ho qualche idea, qualche cosa che mi piacerebbe che accadesse, ho la voce dei personaggi e poi tutto viene da sé. A volte vado in una direzione e poi torno indietro, magari cancello cento pagine perché vedo che non è quella la via giusta. Io non so mai come va a finire, anche perché mi annoierei a scrivere qualcosa che so già come finisce.
Anche il titolo viene strada facendo?
Sì. Chi manda le onde all’inizio si doveva chiamare Luna in fondo al mare, che era il titolo di un capitolo e piaceva all’editore, ma non mi convinceva, mi ricordava l’immaginario di Pierrot, hai presente? In più ho scoperto che c’è un verso di Luna, una vecchia canzone di Gianni Togni che diceva: “Luna ti ho cercato dappertutto anche in fondo al mare…” così ho proprio abbandonato l’idea del primo titolo.
Nel libro si capisce che il mare per te è un elemento importante della vita. Come è nato questo rapporto?
Sì, è vero, devi pensare che io sono nato al mare (a Forte dei Marmi dove vive ancora oggi, ndr) e fin da piccolissimo, d’estate, mia mamma, che di lavoro faceva le pulizie, mi lasciava in uno stabilimento balneare dove lavorava una zia. Da maggio a settembre, dalle otto del mattino alle nove di sera, la spiaggia era la mia casa e nel resto dell’anno non è che fosse molto diverso. La prima volta che ho viaggiato in vita mia avevo tredici anni e sono andato in gita con la scuola a Firenze. Quel giorno ho capito che esistono posti senza mare e mi sono sentito triste, una tristezza che tutt’oggi provo se vado in un luogo dove il mare non c’è. Mi sembra un’ingiustizia.
Tra i tanti personaggi di Chi manda le onde hai un personaggio che ti sta più a cuore?
No, è una cosa a cui sto molto attento. Quando scrivo cero di dedicare la stessa attenzione a tutti i miei personaggi e di non giudicare mai. Odio quei libri in cui si capisce cosa pensa l’autore, io tento sempre di scomparire quando racconto. Per molti anni ho tradotto e la traduzione ti insegna che quanto più sei bravo a tradurre, più sei invisibile. A volte i miei personaggi usano una lingua strana, ma preferisco che il lettore pensi che Genovesi non sa i congiuntivi piuttosto che far parlare un personaggio con una voce poco credibile. A me non importa che mi dicano “bravo”, sono felice invece quando i lettori mi dicono di essersi innamorati di un mio personaggio.
Quando finisci un libro a chi lo fai leggere?
A nessuno, se non alla mia editor Giulia Ichino.
Abbiamo scoperto che nella stesura dei tuoi romanzi non segui schemi, ma come organizzazione del lavoro sei uno scrittore metodico o aspetti l’ispirazione?
Quando lavoro a un romanzo, in genere, mi alzo verso le sette mi metto subito a scrivere fino all’una. Poi nel pomeriggio vado a pescare e rientro verso le nove di sera. Dopo cena riguardo il lavoro della mattina.
Una grande passione la tua per la pesca…
Sì, assolutamente. Da quando avevo quattro anni credo di non aver mai passato più di una settimana senza andare a pescare. Anche quando vado in giro per le presentazioni ho sempre con me una piccola canna da pesca. Io pesco ovunque, mare laghi, fiumi…
Qual è secondo te oggi il ruolo dello scrittore nella nostra società?
Credo che uno scrittore non possa cambiare la morale o la politica, il suo è un piccolo ruolo e allo stesso tempo grandissimo: innamorarsi di una storia e raccontarla per far emozionare chi la leggerà. La letteratura, specie in un mondo tecnologico come il nostro, ci mantiene ancora umani.
In Italia purtroppo l’importanza di questo ruolo è poco riconosciuta vista che si legge sempre meno…
Hai ragione, in Italia ormai si va solo a cena. Una volta si andava a mangiare una pizza, poi al cinema o a teatro, oppure a visitare una mostra. Adesso si va al ristorante alle nove, ci si resta fino all’una di notte e mentre si cena si parla di cibo… La gente dice spesso di non avere i soldi per i libri e la cultura, ma spende tanto in vino e cibo; altri sostengono di non avere il tempo per leggere ma passano le ore a guardare Masterchef o a smanettare sul telefono. Capisco di più chi dice “leggere mi fa schifo”.
Tu quando hai saputo che saresti diventato uno scrittore?
Da ragazzo il mio sogno era formare un gruppo punk o metal e girare il mondo. Poi però mi sono accorto che non avevo un grande talento per la musica. Credo che una dote importante nelle persone sia quella di saper riconoscere i proprio limiti. Io, più passava il tempo più mi accorgevo di essere morbosamente attratto dalle storie degli altri e mi spiaceva che molte persone che conoscevo, che non sarebbero mai state in grado di scrivere un’autobiografia, morissero senza poter lasciare traccia della propria storia. Così ho deciso di raccontarla io. E oggi, quando un lettore americano o brasiliano si riconosce nello zio Aldo e mi dice anch’io avevo un “Uncle Aldo”, sono felicissimo.
Un selfie con Fabio Genovesi.
Mi racconti un aneddoto sui tuoi libri che ti rende orgoglioso?
Ho saputo di un lettore che ha conquistato la donna che sarebbe diventata sua moglie regalandole un mio libro. Ne sono stato molto felice.
Qualche critica che ti ha infastidito?
È positivo che ci siano le critiche perché se tutti parlano troppo bene del romanzo vuol dire che il libro non vende e che non l’ha letto nessuno. Però io cerco di non dare peso né alle recensioni troppo belle, né a quelle brutte. Ho chiesto anche all’editore di non mandarmi informazioni sugli articoli che escono, insomma, cerco di tenermi lontano dalle opinioni altrui anche perché sono sempre soggettive e poi parlare male, si sa, è più facile, specie in tempi di social network.
Ti piace fare le presentazioni del libro in pubblico?
Da morire! Da quando è uscito il libro a oggi sarò rimasto a casa dieci giorni, sì e no. Io non capisco gli autori che trovano “pallose” le presentazioni. Se pensi che ci sono persone che ti hanno dedicato del tempo per leggere il tuo libro, che corrono per venire da te in libreria dopo una giornata di lavoro, che stanno sedute ad ascoltarti per un’ora e mezzo e che se non sei bravo si annoiano pure, ecco, se non dai valore a tutto questo è meglio che fai un altro mestiere! Io amo le presentazioni non per parlare di me o del libro, ma per incontrare le persone. Ogni volta è diverso, è un’esperienza, incontri librai di piccole librerie indipendenti che lavorano con una passione enorme.
Chi manda le onde sarà tradotto in altre lingue?
Per ora è prevista la pubblicazione del libro in Germania, Francia e Olanda, poi vedremo.
Hai un sogno nel cassetto?
Uno era fare il giro d’Italia e raccontarlo e l’ho già fatto per il Corriere della Sera. Quello che vorrei adesso è fare un reportage di pesca nei posti più strani del mondo, come i canali vicino a Chernobil per vedere cosa c’è. Nella letteratura anglosassone la pesca è sdoganata perché è considerata un’attività più nobile, in Italia invece è qualcosa che appartiene solo alle persone del popolo e gli scrittori non l’hanno mai affrontata perché è considerata poco cool. A me, invece, piace perché è una cosa vera. In Italia non si parla mai delle cose che fanno le persone reali. Ma se un romanzo parla solo di un critico e di uno scrittore, la gente non legge perché non si riconosce, si annoia.
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