Fabio Orecchini, Dismissione, Luca Sossella editore 2014
con un progetto video del gruppo “Pane”
È quindi condivisibile il discorso di Gabriele Frasca che accompagna questo libro, interpretabile anche, forse, come presa di posizione tout court, contro ogni forma di manierismo destruens, di qua e di là del campo di battaglia, un vizio duro a morire, capace di riproporsi sempre come una fenice e non interessato ad alcuna verità: perché, la parola che nomina se stessa per proclamarsi fuori dal mondo, è destinata a una sua arcadia.
Due sono i rischi connessi a chi pratica una poesia “altra”, pensando di sbattezzarsi dalla Storia e dalle storie. Il primo è quello del credere che, il celebre “je est un autre”, sia progetto culturalmente ed esteticamente a venire. Abitiamo un mondo in cui, piuttosto che un ego, annegato da tempo nella spersonalizzazione e moltiplicazione degli avatar dell’era digitale, abbiamo bisogno di recuperare e contestualizzare ciò che da tempo è stato decontestualizzato, scaraventato contro “la ricchezza” barocca del mosaico di una realtà sempre più sfuggente.
Secondo rischio è quello di pensare che niente sia più nominabile e che la poesia sia cosa altra, ancora a venire, immaginabile, dunque, solo a partire da un’epoca futura – chi pensa a questo, in genere se la prende contro ogni forma di riabilitazione lirica o realistica, ed è cosa strana ipotizzare che realismo e lirica possano condividere un progetto comune contro ogni sperimentalismo e disfattismo -.
Il requiem di Orecchini, un requiem doloroso a tutti gli effetti, pur pensato da una posizione che qualcosa deve ad altri linguaggi, trova la sua forza proprio in questa semplice nominazione dell’oggetto: la morte sociale.
Dismissione, dunque, è termine dotato di una suggestiva carica metaforica: funerea, se si voglia intendere il dismettersi dal corpo, la dismissione di una sostanza cancerogena come l’amianto; luminosa, invece, se in qualche modo vogliamo riappropriarci del potere assolutorio o consolatorio della parola, forse non per la vita, per il ristabilimento di una giustizia fra gli uomini, ma per un potere da ridare alla parola stessa, alla necessità di essere nella pienezza della sua forma “sociale”; in questo senso il libro di Orecchini, come tutti i libri che protestino contro una qualche forma di morte dell’essere, è un libro di denuncia.
È possibile dire questo partendo da due considerazioni molto semplici sulla forma: la prima riguarda l’aspetto fonico, stridente, quindi essenzialmente materico del testo: parole e versi rauchi nominano ferraglie umane, concrete e dolorose; il figlio che parla non si nasconde ma affronta, si espone in pubblico, si dona, dunque.
Il secondo motivo è la stringatezza, l’asciuttezza della parola che passa da una pagina all’altra come se il progetto fosse quello di giungere velocemente alla fine, non per superficialità, quanto, piuttosto, per evitare la superficie.
È dunque, quello di Orecchini, un testo essenzialmente lirico, se si escludono le zone più marginali del canto, che si innesta nella ricerca di dare una forma alla morte.
Il libro è accompagnato dal progetto Pane: altra lingua, altre parole per dirne.
A me piacerebbe sentir dire queste poesie con tono dimesso, senza alcuna enfasi, nel silenzio assoluto che nutre il dolore della perdita, l’impossibilità rabbiosa di dare nome al potere degli uomini e di Dio. Magari un uno spazio/istallazione di villa Panza, a Varese, uno di quelli dedicati a Dan Flavin …
Sebastiano Aglieco