Il nuovo romanzo di Fabio Volo, La strada verso casa (edito da Mondadori), narra la vicenda di due fratelli che i casi della vita hanno allontanato e che ora, a causa «di un inconfessabile segreto di famiglia che li segue come un fantasma», sono costretti a riavvicinarsi. Non manca poi la storia d’amore, il classico amore intenso e tormentato che ti segna per sempre e che, pur tra alti e bassi, sopravvive al tempo e alle asperità della vita. E non manca nemmeno «il dolore che piega in due e la felicità che fa cantare inventandosi le parole». Insomma, un libro che dovrebbe farci ridere e regalare emozioni a iosa. I due protagonisti di queste pagine così ricche di pàthos si chiamano Marco e Andrea. Marco, tipico figlio del nostro tempo, non ha mai saputo scegliere, «perché ha paura che una scelta escluda tutte le altre. Non ha mai dato retta a nessuno, solo a se stesso». Andrea è il fratello maggiore, uomo responsabile che «ha deciso da subito come doveva essere la sua vita, ha sempre fatto le cose come andavano fatte». Ma ad un certo punto il fato scombina le carte e tutte le loro sicurezze cominciano a crollare. Questa è sommariamente la trama dell’ennesimo libro di Fabio Volo, che punta alla commozione facile, alle frasi ad effetto e ad un pubblico ormai adagiato sul comodo cuscino di una letteratura commerciale, che allieti noiose giornate metropolitane. L’attacco è nostalgico, con un chiaro riferimento alla bellezza degli anni Ottanta, e cerca subito di coinvolgere il lettore. «Negli anni Ottanta si rideva. Si rideva molto di più. Si rideva al lavoro, a scuola, con gli amici e soprattutto si rideva in TV. Quegli anni erano un’epoca favolosa. L’Italia vinceva i Campionati del mondo in Spagna, la musica la facevano i DJ e il suo ritmo dance pulsava dalle radio e dalle discoteche. Perfino il papa sciava in quegli anni. Ci si sentiva liberi, sarebbe caduto il muro di Berlino». Il tentativo, però, rimane vano. Il libro è veramente deludente, la scrittura elementare e le emozioni quasi assenti, nonostante la ricerca ossessiva di situazioni romantiche, drammatiche e commoventi.
La storia tra i due fratelli non suscita alcuna reazione, se non la noia, così come la storia d’amore, definita tormentata e turbolenta, ma in realtà piatta e vittima del solito cliché dei due ex che tornano a rincontrarsi dopo anni ed esperienze di vita diverse. Storie di esistenze che si intrecciano in una confusione probabilmente non ricercata, ma evidente e disarmante. Confusionari i capitoli pieni di flashback, confusionaria la loro disposizione e anche la scelta dei registri lessicali. Dal formale, al parlato, passando per il colloquiale, questo espediente vorrebbe rimanere fedele al progetto di accattivare il lettore e soprattutto la lettrice ammaliata da qualche brutta parola e da qualche frase romantica in stile Baci Perugina. Ad esempio «Con gli occhi chiusi vide suo padre, si abbracciarono, si strinsero forte. “Adesso so chi sei” disse. “Ti voglio bene, papà”». O ancora si leggano frammenti dei dialoghi tra i due innamorati:
«Ti ricordi quando mi dicevi che il posto più bello dove sei stata era tra le mie braccia?».
«Che romantica che ero».
«Vale ancora o qualcuno mi ha battuto?».
«Non vale più».
«Non ci credo, il francese mi ha battuto?».
«Mia figlia ti ha battuto».
«Davanti alla figlia alzo le mani».
Fabio Volo, insomma, non si smentisce e dà vita ad un nuovo romanzo che segue, senza particolari scossoni, la scia dei precedenti. Stucchevole e noioso, anche nel finale, che, invece di donare quel senso di libertà che si proponeva, lascia in bocca un sapore amaro di insoddisfazione. Neanche il presunto colpo di scena riesce a tirare su questo libro che fa della banalità il proprio punto forte.