Un destino ridicolo
di Iannozzi Giuseppe
Ciao Amico Fragile! Sei molto meno stanco di noi seduto in mezzo ai nostri arrivederci. Ma eri poi così fragile! No, non eri fragile: non hai mai barattato le tue parole, le tue musiche per entrare negli spot delle troie di regime. Anche quando eri all’Hotel Supramomte non dicesti contro chi ti aveva fatto del male: “Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile / grazie a te ho una barca da scrivere ho un treno da perdere e un invito all’Hotel Supramonte dove ho visto la neve/ sul tuo corpo così dolce di fame così dolce di sete/ passerà anche questa stazione senza far male/ passerà questa pioggia sottile come passa il dolore/ ma dove dov’è il tuo amore, ma dove è finito il tuo amore.”
Sapevi la vita, il libero cantare, il significato il prezzo la realtà della libertà e delle catene, non condannavi, non perdonavi, profondamente umano, mai vate, solo poeta della gente. Cantavi senza troppi omaggi alla scenografia, eri quasi imbarazzato perché la gente veniva a vederti, a sentirti cantare, e pagava per lo spettacolo. Fernanda Pivano ha detto di te che sei stato il nostro Bob Dylan italiano, sei stato meglio di Bob. Chi e che cosa guardavi? Da dove traevi ispirazione? Dalla vita. La vivevi come pochi, con la sigaretta quasi sempre accesa fra le labbra e la sbornia del giorno prima che non se ne voleva andare, ma eri sempre lucido, ispirato contro le ingiustizie fino all’ultimo, fino a quando il male ti ha strappato alla vita. E non dicesti niente: tutto dentro, e non ti pesava sapere che sarebbe finita la vita. Continuavi a cantare, a scrivere canzoni, perché solo questo era importante: vivere senza pensare che il domani non sarà. Solo all’ultimo concerto del 1997 dicesti che eri malato e la gente rimase muta, frastornata, incredula. E poi esplose isterica. Fu durante quel concerto, l’ultimo, che ancora una volta, come sempre, ti dichiarasti “libero” come a significare “questo non è un addio, è solo Fabrizio che sceglie la libertà di morire”. Bocca di Rosa pianse quella sera, pianse tutta notte. Di nascosto anche. E Geordie, impiccato con una corda d’oro, si ribellò sul patibolo, ma poi si arrese al pianto pure lui. E Giovanna d’Arco, in mezzo al fuoco avvolto addosso al corpo, indarno tentò di spegnere il pianto. E su Via della Povertà molte le voci, le puttane, i dongiovanni, le cenerentole, tutti, proprio tutti, piansero. E Marinella diventata una Stella scivolò nel cielo come una cometa. E il buon samaritano, sempre ad affilare la sua pietà, ha lasciato il carnevale e ora si sente frastornato e affila le tue canzoni con voce stonata trascinandosi lungo i vicoli che ti piangono. Oh, anche questo è amore che viene e che poi se ne andrà, perché tu, tutte quelle lagrime, non avresti voluto provocarle. Ma dovevi essere onesto con chi ti amava. Così Genova smise di violentare Casanova in un vicolo illuminato, le sue urla tacquero, perché, tu, Fabrizio volevi ascoltare ancora, un’ultima volta, il suono dolce dei marosi, del mare profondo e blu. E il bombarolo si aggiustò la fuliggine addosso e lasciò cadere a terra, distrattamente, il suo tritolo: solo un piccolo botto senza danni, perché il rumore, in simili occasioni, non è fuori luogo. Ma Bocca di Rosa non voleva che saperne di tacere il pianto. E allora tu la consolasti cantandola ancora, un’ultima volta. E la cullasti come una bambina. La calmasti. Ma lei continuò a piangere, segretamente, in silenzio, senza farsi vedere.
“Un destino ridicolo” l’ha scritto un vero contestatore, Fabrizio De André insieme ad Alessandro Gennari. Il destino parla di tre uomini, d’una girandola di personaggi raccolti in una metaforica Trinità, un intellettuale marsigliese passato dalla Resistenza alla malavita, un pappone sognatore e indolente e un pastore sardo che ha alle spalle una pesante condanna da cui è fuggito. Insieme organizzano il furto d’un carico di merce: una trinità di uomini che sembrano essere agli antipodi per carattere e ideali e che, invece, potrebbero essere idealmente un’unica geografia umana, una sola persona, una Trinità. Tre uomini lontanissimi che il destino riunisce a Genova per il colpo della vita “alla vita”. Poi ci sono anche due donne, una prostituta dell’angiporto e una istriana che, a dispetto della Trinità disegnata da Fabrizio De André e Alessandro Gennari e del disastro cui va incontro (la Trinità), aspettano e intanto se la ridono per quegli uomini tormentati da un destino troppo ridicolo per essere considerato come espressione della libera religiosità umana. Della “libertà”. E Fabrizio e Alessandro, personaggi marginali, all’inizio e alla fine del romanzo, sono i veri protagonisti insieme a “Bocca di Rosa”, insieme alle prostitute, coloro che sanno raccontare e che non censurano la storia che vedono e sentono lì, a Genova.
“Bocca di rosa” ha finalmente smesso di piangere e contesta ancora perché così tu avresti voluto che fosse, mentre i tre uomini che racconti ridicoli sono rimasti assorbiti dal loro destino, un destino di cui non riescono a capacitarsi. La vita è già stata disegnata per loro, si è posata inesorabile sulle loro spalle senza che se ne rendessero conto: per loro, la vita non potrà essere proiezione nel futuro perché presente e futuro sono un unico tempo, il presente, e solo questo conta veramente.
E’ questo e molto di più l’unico romanzo lasciatoci da Fabrizio De André. Lo stile è quello delle sue canzoni più famose, poi c’è la mano di Alessandro Gennari, leggera come una piuma, e Alessandro è come un fratello ideale per Fabrizio. Un perfetto ritratto della vita, del destino, e i grandi protagonisti sono…sono. Semplicemente “sono”.
Fabrizio De André, Alessandro Gennari – Un destino ridicolo – Einaudi – Collana, Einaudi Tascabili – pp. 150 – Euro 8.50