"Le parole sono importanti!" gridava il Nanni Moretti pallanuotista nel film Palombella rossa. Lo sono talmente che la spiegazione della loro etimologia può condizionare il pensiero sino a fuoviarlo.
Sovente leggo, e sento dire, che la parola fotografia deriva dal greco antico e si compone di due parole che significherebbero in italiano "luce" e "scrivere", per cui fotografare equivarrebbe a "scrivere con la luce". Da qui fiumi di altre parole, ben più di mille, con cui si tenta di convincere l'incauto fotografante che sarebbe un "romanziere luminoso".
La deriva filo-letteraria attuale, quella dello storytelling per intenderci, non fa che ribadire il concetto e lo rafforza immaginando che le singole fotografie siano meglio "leggibili" se disposte secondo serie o sequenze, come le parole o le frasi di un testo scritto. Al nostro fotoromanziere, se con la luce ci fa delle fiction, o fotosaggista, se invece vuole documentare qualcosa, si insegna quindi come impostare il suo testo visivo, quali capitoli vanno prima e quali dopo. Il risultato finale è una sorta di letteratura a fumetti fotografici, dove le icone hanno quasi solo più la funzione che ebbero nella nobile arte del cantastorie siciliano: servono a illustrare le parole, a segnare i passi dove il narratore deve gridare le gesta del prode Orlando.
Peccato che l'etimologia greca della parola "grafia" non sia scrivere, bensì disegnare (dal greco γραϕία, disegno). Chiunque tenti di tracciare dei segni su una superficie, anche solo con le dita sporche su un muro, sa bene che tra disegnare e scrivere passa una bella differenza. Si può saper scrivere un racconto, ma non saper disegnare nemmeno un fiorellino. Qui poi a disegnare non è nemmeno l'umano, ma una macchina, Ancora peggio. Il fotografante quindi non solo non è uno scrittore, ma nemmeno sa disegnare. La luce che passa dall'ottica dentro la fotocamera lo fa per lui.
Ripartiamo da qui, facciamoci del bene...