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FACES (Volti) di John Cassavetes. Recensione.

Creato il 15 ottobre 2013 da Luigilocatelli

tumblr_m8kcu2StyU1r4ehhvo1_1280Faces (Volti), di John Cassavetes. Usa 1964-’68. Con Gena Rowlands, Seymour Cassel, John Marley, Lynn Carlin. In b/n.2013-10-09Finalmente, dopo averlo inseguito per decenni, sono riuscito a vedere questo mitologico lavoro di John Cassavetes qualche giorno fa – venerdì 11 ottobre 2013 – allo Spazio Oberdan di Milano. Oltretutto in una copia digitale senza fruscii, spappolamenti, tremolii, sbalzi repentini come accade purtroppo quasi sempre in cineteca con le pellicole vecchie, usurate, rovinate irreparabilmente. Film che segnò la rinascita e il ritorno al cinema indpendente, anzi all’indipendenza tout court, di Cassavetes dopo le disavventure di due film con gli studios, in particolare di quel Gli esclusi (con Burt Lancaster e, incredibilmente, Judy Garland!) che l’aveva portato in rotta di collisione con la United Artists e con Stanley Kramer, che alla produzione sovrintendeva. Faces lo gira difficoltosamente nel corso di alcuni anni, ne fa un primo montaggio di 160 minuti, poi mette a punto questa versione, considerata l’ultimativa, di 129 minuti. L’improvvisazione assoluta, da jam session jazz visuale, del film d’esordio Shadows lascia qui il posto a una sceneggiatura strutturata su cui poi regista e interpreti aggiungono, sovrappongono, svariano con interventi di improvvisazione per così dire controllata e pilotata. Macchina da presa (si gira in 16 millimetri poi gonfiati a 35, con un effetto sporco di sgranatura che sottolinea e moltiplica il senso di immersione nella realtà) mobilissima fino all’isteria, di movimenti ora fluidi ora – ed è il più delle volte – sincopati, sempre a seguire i personaggi, a stare loro addosso, a inquadrarne le facce, vero specchio dell’interiorità e primo elemento della partitura per immagini che man mano Cassavetes compone davanti ai nostri occhi. Chiaro che l’obiettivo, assai avanguardistico (allora) e assai seducente per chi lo persegue, è, ancora una volta – come già nel neorealismo, e nella Nouvelle Vague più radicale -, quello di catturare la realtà nel suo farsi, di distruggere ogni filtro che si frappone tra ciò che è e la sua rappresentazione. Ennesimo sogno di un cinema verità depurato, mondato e riscattato da ogni finzione. Illusione, generosa ilusione, come sappiamo molto bene, l’illusione eterna di ogni verismo e realismo, ma sempre capace di generare nuovi credenti, in chi la pratica e in chi vi assiste da spettatore o lettore. Qui poi, negli anni Sessanta, siano in piena temperie modernista per quanto riguarda le arti (e i costumi, e i consumi, e gli stili e gli stili di vita), e in Faces (come peraltro in molto Antonioni dello stesso periodo, vedi Il deserto rosso) c’è una sorta di furore iconoclasta, o per meglio dire antifigurativo, in cui lo spazio schermico e ciò che lo invade vengono sottoposti a un processo di astrazione. Immagini che rimandano a se stesse e irrelate, autonomizzate e liberate da ogni obbligo narrativo o solo di significato. Scomposizione cubista, e un racconto destrutturato e ridotto a anarchico flusso e/o montaggio di momenti singoli, isolati. Ancora una volta, il jazz come feticcio, come riferimento e modello compositivo e scompositivo. Ecco, quest’impeto così anni Sessanta oggi ci pare lontano e superato, o quantomeno assestato e storicizzato. Resta quel furore di cogliere la realtà, di inseguirla, di perseguitarla quasi, trasformando la figura del regista e la sua macchina da presa in stalker ossessivi e ossessionati dal loro oggetto, qualcosa che è assai attuale, qualcosa che nel cinema di oggi si incarna in decine e decine di film di giovani registi di ogni angolo del mondo girati con la steadycam, macchina a mano o in spalla a braccare i personaggi. Davvero, John Cassavetes, questo Cassavetes di Faces soprattutto, è uno dei loro padri, e loro semplicemente non ci sarebbero senza di lui e il suo cinema. Quel che qui racconta – sì, perché nonostante ogni proclama e ogni apparente pratica di non-finzione il racconto c’è eccome -, è una crisi di un matrimonio. Faces è per C. quello che sarà di lì a qualche anno Scene da un matrimonio per Ingmar Bergman, e che tra i due ci sia un’affinità ce lo dice una scena del film, quando la moglie insiste per trascinare il marito al cinema a vedersi un film del grande svedese. Apparentement anarchico, Volti è invece rigorosamente costruito in una struttura a blocchi, ognuno dei quali corposo e piuttosto lungo (Kéchiche in La vie d’Adèle usa una costruzione molto simile). Veri capitoli di un romanzo per parole e immagini, ognuno dei quali potrebbe benissimo averci un titolo o una numerazione, tanto è classica la loro scansione. Sicché la tradizione tanto aborrita e rigettata attraverso tutti i possibili movimenti e contorcimenti della macchina da presa rientra subdolamente e si prende la sua rivincita. I capitoli: si comincia con due signori e due prostitute. Si prosegue con uno dei due signori, Richard Forst, che torna a casa e ex abrupto annuncia alla moglie di volere il divorzio. Il fatto è che forse (forse) si è innamorato di Jeannie, la prostituta con cui ha passato la notte. Jeannie e una sua amica si portano a casa altri due clienti, ma arriva Richard, c’è casino con i due uomini, Richard riesce a restare solo con Jeannie. La moglie e tre amiche sue intanto si portano a casa dopo una sera di gozzoviglie in un club musicale un ragazzotto (è Seymour Cassel, attore-feticcio di Cassavetes, giovanissimo e irriconoscibile). Il resto scopritelo quando vi capiterà di vedere il film, magari in dvd (al cinema è molto, molto più difficile). Cassavetes affonda il suo coltello nelle piaghe matrimoniali, di molti matrimoni, senza troppi psicologismi, con onestà, lucidità. Come emergerà anche dai suoi film successivi, per lui il mondo dei maschi e delle donne sono difficili da conciliare, e quello degli uomini ha riti e solidarietà e complicità cui le donne non hanno accesso e da cui sono respinte. Faces è cinema virile come pochi, che però, o forse proprio per questo, riesce incredibilmente anche a mettersi con naturalezza dalla parte delle donne, a rappresentarne mirabilmente il punto di vista. La prostituta Jeannie è la puttana più credibile, perbene e rispettabile che si sia mai vista al cinema, fuori com’è da ogni cliché, rispettata dall’autore e profondamente rispettabile, e siamo negli anni Sessanta. Così come – specularmente – gli uomini che la frequentano e la pagano non sono essere abietti. Le quattro amiche che si portano a casa il toyboy anticipano di decenni tutte le cougar e le milf da cui siamo oggi sommersi, e il capitolo di cui sono protagoniste profetizza parecchio dell’emancipazione femminile che di lì a qualche anno si innescherà clamorosamente. A impressionare, vedendo Volti, è la quantità di alcol versata, bevuta, tracannata. Non c’è scena, dico una, senza che qualcuno abbia in mano un bicchiere o se lo stia riempiendo. Un film alcolico, con personaggi dalla percezione alterata, esattamente come altri film sono allucinati o tossici. È il motivo per cui oggi Faces sarebbe non solo irrealizzabile, ma neppure pensabile, quale produttore mai lo finanzierebbe? quale distributore lo acquisterebbe? Eppure, nonostante l’anarchismo abbondantemente esibito nella forma e pure, talvolta, nella sostanza (che sta per: personaggi e loro comportamenti), si ha la sensazione che ci sia molto di manierato e manieristico nell’intera operazione, come se Cassavetes stesse mettendo a punto definitivamente, e assai consapevolmente e lucidamente, i suoi codici narrativi, stilistici, comunicativi. Faces è l’invenzione in vitro del cassavetismo. Un film che, nella sua apparente germinazione spontanea, è in realtà il prodotto di una intenzionalità estrema. Vedendolo, mi son reso conto di quanto il cinema del suo autore non mi sia congeniale. Lo ammiro, lo rispetto, ma difficilmente riesco ad amarlo, e a tenermelo distante è la sua retorica anarco-spontaneista. Solo in alcuni momenti, nello strazio, nell’urlo, nel consumarsi distruttivo dei suoi personaggi, son riuscito a farmelo piacere davvero. Ad esempio nella scena della protagonista della Sera della prima, con lei terrorizzata dai fantasmi della vecchiaia, incapace di andare in scena, paralizzata. Ho ritrovato quell’intensità, quello strazio, nella sequenza, magnifica, di Faces quando Jeannie (Gena Rowlands, of course) cede a Richard dicendogli “Non so come, ma tu riesci a commuovermi”. Ecco, questo è, per me, Cassavetes.


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